«Ferocemente». L’eufemismo si addice all’«avvocato del popolo». Commentando il singulto registrato ieri dall’Istat nelle prospettive dell’economia nel 2019 sulla crescita del prodotto interno lordo (+0,3% rispetto al «prudenziale» 0,2% previsto dal governo), il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha usato il tonante avverbio. «Siamo ferocemente determinati – è scritto in un’immagine allegata a un tweet sul profilo ufficiale – Siamo fermamente convinti che l’Italia possa farcela, che tutti noi possiamo farcela. Riportiamo il Paese nell’orizzonte che gli spetta, un orizzonte di crescita, di sviluppo sostenibile, in grado di liberare e impiegare le migliori energie». Il concetto è stato ribadito all’assemblea di Confindustria. Quante energie mobilitate per una fatica di Sisifo dello 0,1%. Sono lontani i tempi della «ripresa incredibile» nell’«anno bellissimo».

Più chiaroscurate, com’è costume del personaggio, sono state le considerazioni del ministro dell’economia Giovanni Tria. Sollevato dal fatto che la crescita non è a «zero», come sostenuto dall’Ocse, ma poco sopra, Tria si è misurato in un sottilissimo distinguo: «La crescita è meno forte di quanto auspicato ma più di quanto atteso». Il paese è «sulla buona strada» e il ministro si è detto «ottimista» perché «le previsioni migliorano di mese in mese verso l’alto mentre l’anno scorso erano mese dopo mese verso il basso».

La crescita italiana resta la più bassa d’Europa ed è il risultato di una revisione al ribasso di quella stimata dal governo. Prima l’1,5%, poi l’1%, oggi lo 0,2, poco più, poco meno. La differenza rispetto a quando i ministri a cinque stelle festeggiavano dal balcone di palazzo Chigi l’abolizione della povertà è che, per il momento, le stime del governo coincidono più o meno con quelle dell’Istat, dell’Fmi e della Commissione Ue che l’ha stimata allo 0,1% lasciando aperta la possibilità di «una tenue ripresa». Per quest’ultima i problemi verranno dall’aumento delle stime di deficit e debito. Nel 2019 il primo salirà al 2,5% (contro il 2,04% del governo) e nel 2020 al 3,5 per cento, senza contare un eventuale aumento dell’Iva comunque previsto al momento. Il debito salirà al 133,7 per cento del Pil nel 2019 e al 135,2 per cento il prossimo anno. E questo al netto delle promesse elettorali sulla «flat tax» che potrebbe portare al peggioramento delle previsioni, insieme a un’ancora fantascientifica serie di privatizzazioni e tagli (18 miliardi di euro per quest’anno). Se ne riparlerà in autunno, con un passaggio a inizio giugno, all’indomani delle elezioni europee di domenica. A quel punto il governo sbandiererà i virtuali apporti dei decreti «crescita» e «sblocca cantieri», ribattezzato dalla Fillea Cgil «sblocca porcate».

Sedute di auto-motivazione a parte, è necessario considerare altre valutazioni strutturali fatte dall’Istat: la mini-crescita è sostenuta dalla domanda estera netta mentre la componente nazionale al lordo delle scorte ha fornito un contributo negativo. Considerate le incertezze internazionali, a cominciare dalla guerra dei dazi, questo scenario è considerato incerto. Le previsioni di crescita delle esportazioni e importazioni si sono sensibilmente ridotte. Dal punto di vista interno, la crescita sarà sostenuta dai consumi delle famiglie. Come previsto il sussidio detto impropriamente «reddito di cittadinanza» darà una spinta limitata in un clima generale dove la fiducia di famiglie e imprese è negativa, quella delle imprese è ballerina. L’intento del governo è quello di spingere i beneficiari a consumare. A parere degli ideatori del sistema, tale coazione servirebbe a consolidare il rimbalzo. Potrebbe invece produrre l’effetto opposto: considerata la precarietà e la disoccupazione, le famiglie tenderanno a risparmiare per precauzione.

In questa situazione l’occupazione è piatta: l’aumento simbolico dello 0,1%, mentre l’Istat parla di un aumento del tasso di disoccupazione di due decimali al 10,8%. La spesa per gli investimenti in macchinari, attrezzature e costruzioni segnerà una decisa decelerazione. Lo scenario resta quello previsto dall’Istat: si esce dalla «recessione tecnica», si resta in stagnazione.