«In altri termini, io sono tre»: così inizia l’autobiografia di Charles Mingus, Beneath the Underdog (Meno di un cane rognoso), ch’egli finì di scrivere nel 1971 e che, pubblicato lo stesso anno a New York da Knopf, in Italia ha solo oggi trovato un editore (Il Formichiere). La morte del musicista ora avvia la possibilità del revival, necrofila passione di un’industria culturale che svetta nella celebrazione, che produce per tutti gli underdog solo il risarcimento postumo. Io sono tre, dice Mingus: «Un uomo sta eternamente in mezzo, quieto, freddo, e attende la possibilità di dire quel che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che aggredisce per paura di essere attaccato. Infine c’è il terzo, una persona iperamorosa e gentile che lascia che chiunque entri nel più segreto tempio sacro del suo essere e che lo si insulti, che gli si carpisca la fiducia, che firma contratti senza leggerli e viene trascinato a lavorare per poco o nulla, e che quando capisce quel che gli hanno fatto sente il bisogno di uccidere e distruggere tutto attorno a sé e anche sé stesso per la propria stupidità. Ma non può: cosi ritorna dentro a sé stesso. Ma quale di questi è reale? Lo sono tutti. L’uomo che osserva e aspetta, l’uomo che attacca per paura, e l’uomo che desidera lavorare e amare, ma che si richiude ogni volta che si sente tradito. Mingus Uno, Due e Tre. Quale di queste è l’immagine che vuoi offrire al mondo. Queste tre immagini di Mingus le ha offerte tutte, disordinatamente, con eccessi e sbandamenti, ma con la grande umanità di chi tutto possiede, intelligenza, sentimenti e arte, e non sopporta che ci siano uomini così vili da non avere nulla di tutto ciò, ma solo furbizia.
«Non sopporta» ho scritto, ma in verità non crede e, per quanta corteccia gli abbiano messo addosso gli anni e l’esperienza, continua a non credere e a cadere negli stessi impossibili, inumani inganni.
Il Mingus numero Uno direttamente l’ha conosciuto solo Mingus, ma è quello che tutti conosciamo in qualche modo per quel che di lui è presente nelle grandi musiche che il compositore e contrabbassista ci ha offerto. Dicendo che proprio questo era il compositore, forse rischierò di essere pedante, ma, se è lui la freddezza e la quiete, la calma dell’elaborazione, è lui il compositore delle migliori pagine di Mingus. L’enfasi d’amore, il pieno di dedizione, la follia dell’identificazione avvengono piuttosto col contrabbasso nell’estasi lirica tante volte dedicata a Ellington, con Sophisticated Lady, con Mood Indigo e altre musiche fino al Duke Ellington’s Sound of Love composto poco dopo la morte del celebrato maestro; nella potenza espressiva e trascinante di quei gruppetti di note usate come pedali, che costituiscono un potente richiamo delle divagazioni al tema, in quella straordinaria unità con lo strumento che non solo a questo ha donato l’inconfondibile voce, ma che lo ha fatto diventare qualcosa di più, l’intenzione stessa di Mingus, il motore del suo desiderio, la sublimata immagine del fucile che libera il mondo dal razzismo.
Nato in Arizona, a Nogales, nel ’22, Mingus è cresciuto in California, a Watts, studiando il trombone e il violoncello prima di dedicarsi interamente al contrabbasso. Iniziò la sua carriera professionale a 18 anni, ottenendo in breve una notevole stima. Nel 1951 si trasferì a New York dove incontrò Parker, Powell, Roach, Tatum ed Ellington. Suonò con loro e, avendo fondato una propria casa discografica, il celebre concerto alla Massey Hall di Toronto, una sorta di apologia del bebop, svoltosi nel maggio del ’53 (attori Parker, Gillespie, Powell, Roach e Mingus) venne edito da essa. Del 1956 è lo splendido Pithecanthropus Erectus che afferma la piena maturità artistica di Mingus. È qui superato il diaframma del suonare in maniera eccellente e anche della creatività solistica per approdare all’opera concettualmente concepita, al disegno estetico, alla progettazione dei rapporti tra ritmo e tempo e tra cosa sonora e società.
Elencare le altre opere di Mingus degne di menzione significherebbe ripeterne quasi appieno la densa discografia. The Clown e Tonight at Noon, come Tijuana Moods, vengono registrate nel ’57, del ’59 sono Blues and Roots (ben altre radici che non quelle di Alex Haley), Mingus Ah Um e Mingus Dinasty, del ’60 Charles Mingus Presents Charles Mingus e Mingus! che, insieme a The Jazz Life e a Newport Rebels chiudono arbitrariamente quest’elencazione che, realmente, quasi ricalca l’elenco dell’opera omnia. Non posso però non ricordare Money Jungle, The Black Saint and the Sinner Lady e le irrinunciabili registrazioni del ’64 con Eric Dolphy, Jaki Byard, Clifford Jordan e lo « stupid» Danny Richmond.
In questi dischi, nelle musiche mingusiane degli anni a cavallo del 1960 c’è l’embrione del jazz di tutto il decennio successivo. Vi domina l’improvvisazione collettiva nello spirito di quella vecchia New Orleans che Albert Ayler richiamerà alla memoria con tanta passione, vi sono cenni di dissoluzione del metro musicale, del beat, vi è – e soprattutto nel suo contrabbasso – un vero e proprio culto dell’intensità del suono. Come senza Parker, così senza Mingus il free jazz non sarebbe stato possibile, ma come Parker, così Mingus erano artisti necessari la cui sconvolgente presenza ha costituito il jazz moderno così quale esso è.
Ora Mingus se n’è andato: è morto venerdì 5 gennaio 1979 all’età di 57 anni. Era da tempo malato e sofferente. L’uomo piccolo, ma robusto e pieno di vigore di venti anni fa era diventato quella deforme massa di disfunzione che tutti abbiamo visto negli ultimi anni. Non so se resti il meglio di lui, ma quel che resta è grande. (10 gennaio 1979)