Per Roberto Minervini, a Cannes in Un Certain Regard con il suo The Other Side, «il cinema è una seconda scelta rispetto alla fotografia di guerra, che mia moglie non avrebbe mai accettato facessi». Per questo, spiega, con i suoi documentari cerca «di ritrovare quelle guerre». Ma non in Iraq o Afghanistan, bensì negli Stati uniti, dove vive da anni. E la guerra la trova in Louisiana, patria della celebre città del jazz, New Orleans, ma anche di un’ umanità dimenticata, in lotta contro l’assenza di lavoro e di uno Stato con le sue regole e garanzie; ma soprattutto contro la paura di smettere di esistere agli occhi di chi si dovrebbe occupare di lei. Diviso radicalmente in due parti, The Other Side esplora quelli che potremmo definire i due lati di questa medaglia: la vita della coppia di tossici Mark e Lisa, il loro ambiente e le fobie paranoiche di estrema destra di un gruppo di giovani paramilitari. Ventenni che si organizzano per il momento in cui scoppierà la nuova rivoluzione americana contro la cancellazione delle libertà del governo Obama. «Loro sono certi – spiega Minervini – che un giorno si sveglieranno e ci sarà la legge marziale, i posti di blocco nelle strade». Seguendo i suoi personaggi, lo sguardo del regista sceglie impietosamente scene al limite della sopportazione. Ma quanto più mostra nasconde: lascia al non detto tutti i perché, i come, quegli aspetti politici della storia su cui lo spettatore è invitato a riflettere.

C’è nel suo film anche un certo livello di messa in scena, una voglia dei personaggi di mostrarsi? 

Assolutamente: è la condizione necessaria per fare un film del genere. È la ragione per cui tutti hanno partecipato. Nella prima parte Mark e Lisa si sono dati completamente alla macchina da presa, nei momenti di bellezza come in quelli più duri. Hanno deciso loro di farsi riprendere mentre facevano sesso, e addirittura Mark mi ha chiesto di filmare il momento in cui fa la proposta di matrimonio a Lisa. Quando si convive per un anno si raggiunge un livello di intimità così profonda che le maschere cadono. Il pianto accorato di Mark per la madre che sta per morire – ed è poi morta poco dopo la fine delle riprese – è un momento che non si può fingere. Nella seconda parte, in quel mondo fatto di slogan, c’è un modo diverso di farsi vedere: sfrontato, flettendo i muscoli; manca l’intimità della vicenda precedente. Ma in entrambi i casi la voglia di rivelarsi serve per dimenticare la paura costante in cui vivono: quella di essere completamente abbandonati.

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Non vi siete mai chiesti, anche con loro, se ci fosse un limite a ciò che si poteva mostrare? 

Il mio metodo di lavoro è fare delle osservazioni, delle riprese, e poi cercare di capire che storie si possono raccontare e che strade prendere. Questa «scrittura» viene poi condivisa con i personaggi, con cui ci incontravamo ogni mattina per discuterne e capire quali sono i limiti da un punto di vista etico. La mia è una formazione da fotoreporter, per cui è importantissimo raccontare delle storie che vadano oltre lo shock dell’immagine. La donna incinta che si buca e poi fa lo spogliarello, ad esempio, è la punta di un iceberg. Non si vede poi che l’ho seguita dopo la nascita della bimba, che portava con sé durante gli strip e a cui cantava la ninna nanna. A volte lo scossone che provocano le immagini è necessario per approfondire questo discorso. Come le foto di guerra, del Vietnam. Servono ad iniziare un dibattito politico più profondo.

E qual è questo discorso politico?

 L’America in cortocircuito, quella del Midwest del sud dove le istituzioni e l’opinione pubblica non si parlano più. Un’America che, dal 2008 in cui è cominciata l’amministrazione Obama, ha vissuto la politica ostruzionista e di propaganda della destra volta unicamente a far cadere il governo. Ricordo che quell’anno la stampa più autorevole diceva che stavamo assistendo a un cambiamento nel modo di fare politica: l’ostruzionismo puro. Ma parlo anche dell’America dei veterani di guerra, vittime dirette e indirette della politica guerrafondaia, laddove il dipartimento dei Veteran Affair è allo sfascio. Cosa ancor più tragica dato che i veterani di oggi sono dei ventenni, spesso disabili, facili a cadere nella dipendenza delle droghe così da perdere il sostegno economico. Vengono abbandonati a se stessi, abusati. E la propaganda dell’esercito non è mai stata così forte. Dovunque ci sono uffici di reclutamento, anche vicino al parco dove porto i miei figli.