Una mosca si posa sul sandwich offerto da Nancy Tench, la moglie dell’agente dell’Fbi Bill Tench, all’assistente sociale che indaga sulla sua famiglia dopo che il figlio di sette anni della coppia è stato testimone dell’omicidio, compiuto da dei coetanei, di un bimbo ancora più piccolo nelle prime puntate della seconda stagione di Mindhunter (disponibile su Netflix).

COME I VERMI che infestavano la scatoletta di cibo per gatti lasciata intonsa dal micio che faceva visita alla studiosa di psicologia Wendy Carr nella prima stagione, sono i particolari che nella serie tv (produttore esecutivo sempre David Fincher, regista anche dei primi tre episodi) indicano la presenza di un filo invisibile che lega il mondo oscuro e sotterraneo dei serial killer a quello che vive alla luce del sole: la villetta nella provincia borghese della famiglia Tench, i giochi dei bambini, l’affaccendarsi quotidiano della gente «perbene». Qualcosa di indescrivibile, nonostante i protagonisti spendano nel corso delle due stagioni un fiume di parole per nominarlo, definirlo, inquadrarlo.

Siamo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta e l’unità di scienze comportamentali dell’Fbi si sta ampliando: le ricerche degli agenti speciali Ford (Jonathan Groff) e Tench (Holt McCallany) – e con loro Wendy Carr (Anna Torv) – si sono imposte all’attenzione, specialmente del nuovo supervisore dell’unità Ted Gunn, che in apertura della seconda stagione chiede subito di incontrare Holden Ford, affascinato dalle sue teorie sul criminal profiling.

ISPIRATO all’ex agente dell’Fbi John E. Douglas – pioniere appunto del criminal profiling e autore del libro da cui Mindhunter è tratto: La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano – Ford è reduce da una crisi di panico dopo il suo ultimo incontro con Ed Kemper (Cameron Britton), colui che più di tutti, nel corso della prima stagione, ha fornito a lui e Tench un punto d’accesso alla psicologia «deviata» di un serial killer, termine coniato dall’unità speciale proprio per descrivere i criminali come lui. Autori di omicidi ripetuti e apparentemente senza movente per i quali i tradizionali metodi investigativi non sono sufficienti – anzi risultano perfino fuorvianti.

Tratteggiare un loro profilo psicologico è l’unica strada percorribile per anticiparne le azioni e avere una speranza di fermarli. A questo scopo le interviste in carcere di Ford e Tench continuano: ora che l’Fbi ha approvato ufficialmente il loro metodo hanno una fitta agenda di incontri con i più terribili serial killer Usa. Da David Berkowitz – quel Son of Sam che fra il 1976 e il 1977 uccise 6 persone e ne ferì 7 a New York – alla vera e propria celebrità del male, Charles Manson, interpretato dallo stesso attore di C’era una volta a… Hollywood di Tarantino: Damon Herriman.

Ad accompagnare tutta la seconda stagione di Mindhunter è però la vicenda degli Atlanta child murders: 25 bambini e adolescenti provenienti da famiglie povere nere scomparsi e poi ritrovati uccisi nella città della Georgia fra il 1979 e l’81. L’unità speciale di Ford e Tench viene coinvolta ma la verità a cui punta il loro metodo è ancora inaccettabile sia per le autorità – per cui è un inconcepibile che un solo uomo sia dietro tutti gli omicidi – sia per le famiglie delle vittime, che nella città del Sud dove il Kkk ancora imperversa guardano agli aguzzini di sempre.

PARALLELAMENTE l’attenzione si sposta dalla vita privata di Holden – protagonista assoluto della prima stagione e fautore più convinto del criminal profiling – a quella di Tench, più squadrato del collega ma che dopo quanto è accaduto al figlio si ritrova a porsi fra le mura di casa le stesse domande che appartengono al suo mestiere.
Questa stagione di Mindhunter come la prima si muove sullo scivoloso terreno della cronaca nera senza mai cedere al voyeurismo morboso. L’apice della tensione è nei dialoghi con i killer, nel «duello» costante per penetrare oltre il particolare scabroso esibito con fierezza dagli assassini, una facciata manipolatoria oltre la quale solo Holden sembra saper realmente accedere – pagandone le pesanti conseguenze come sottolinea con enfasi la sequenza in cui porta una croce alla marcia per le vittime dell’assassino di Atlanta. È lui a possedere quel dono/maledizione che condivide con il protagonista di Manhunter di Michael Mann a cui il titolo della serie di Fincher rende omaggio: la capacità di vedere oltre la superficie illuminata delle cose, dentro quell’oscurità a cui resta impossibile dare un nome.