Sono vari i temi di cui si discute in Libano in questi giorni. Le conseguenze dell’ondata di gelo che soffrono di più i profughi siriani e la porzione più povera della popolazione. Il muro che Israele sta costruendo al confine e i rischi di una nuova guerra. E gli ultimi avvertimenti minacciosi giunti degli Stati uniti. L’Amministrazione Trump, riferisce il quotidiano al Akhbar, è andata su tutte le furie quando ha appreso dell’invito del Libano a Damasco per partecipare al summit economico della Lega araba, che prende il via domani a Beirut. Washington minaccia di imporre sanzioni al Paese dei cedri se parteciperà, in qualsiasi modo, alla ricostruzione della Siria. Un colpo basso che taglia il fiato al Libano in difficoltà economiche e finanziarie. Beirut chiede aiuti a paesi arabi ed occidentali ed inoltre guarda con grande interesse alla ricostruzione della Siria. I suoi porti e il suo territorio potrebbero diventare la base o il punto di passaggio per imprese, materiali e merci dirette a Damasco. Il diktat americano complica tutto.

Sullo sfondo c’è la crisi politica interna. Natale aveva annunciato la formazione di un governo di unità nazionale dopo sette mesi di inutili trattative seguite alle elezioni legislative dello scorso maggio. E invece non si sono ancora colmate le differenze tra il fronte 8 Marzo composto dai movimenti sciiti Hezbollah e Amal, la Corrente patriottica libera del capo dello stato maronita Michel Aoun, il Partito comunista e i sunniti filo siriani del “Blocco dell’incontro”, ed il fronte 14 Marzo formato da “Mustaqbal” (il partito dei sunniti anti-Damasco guidato dal primo ministro Saad Hariri), dai maroniti di destra Falangisti e Forze Libanesi e dai drusi di Walid Jumblatt. A suonare un nuovo allarme sui pericoli rappresentati dalla paralisi politica è stato qualche giorno fa il patriarca maronita Beshara Rai che ha ricordato che, tra le altre cose, ci sono in ballo gli 11 miliardi di dollari di aiuti promessi al Libano durante la Conferenza dei Cedri di Parigi e non ancora arrivati perché vincolati alla realizzazione di riforme che solo il nuovo governo potrà adottare. Il pomo della discordia è il veto di Saad Hariri alla assegnazione, su richiesta di Hezbollah e di Amal, di un ministero ad uno dei sei parlamentari sunniti del “Blocco dell’incontro” eletti a maggio. Il premier incaricato li considera dei “traditori” e intende punirli con l’esclusione dal governo.