Avendo trascorso gran parte dell’infanzia negli Stati Uniti, dove erano emigrati i genitori, Svava Jakobsdóttir dovette imparare nuovamente l’islandese quando rientrò nella sua isola, all’età di dieci anni, cosa che ne ha senza dubbio influenzato il rapporto con la lingua e la cultura islandese, togliendole un po’ del rispetto quasi sacrale della tradizione, che contraddistingue invece gran parte degli scrittori suoi conterranei. Jakobsdóttir fu infatti tra i principali artefici dell’introduzione del modernismo in Islanda, sulla spinta non solo delle esperienze oltreoceano – dove aveva trascorso un secondo periodo per gli studi universitari – e fu anche una ardente femminista, ciò che la spinse a scardinare il repertorio linguistico e letterario dato, tramite di valori maschili (e maschilisti).
Nel 1969, Svava Jakobsdóttir si ritrovò improvvisamente al centro dell’attenzione – almeno nel suo paese – grazie al romanzo breve L’affittuario (traduzione di Silvia Cosimini, Ets, pp. 75, euro 10,00) pubblicato ora in Italia dopo ben quarant’anni dalla prima uscita grazie alla perseveranza della sua traduttrice.

Precarietà, parola chiave
Parte dell’immediato successo che il romanzo ottenne alla pubblicazione è dovuto all’innata diffidenza, se non vera e propria paura degli islandesi nei confronti degli stranieri. Per secoli, l’Islanda ha goduto e sofferto in pari misura del proprio isolamento, e del mito che ne ha costruito, quello di una popolazione insolitamente uniforme dal punto di vista delle origini, temprata e selezionata da condizioni di vita particolarmente severe. Una situazione che cambiò bruscamente con la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando la giovane repubblica indipendente si vide costretta ad accettare la presenza e l’aiuto di un ospite (un affittuario?) piuttosto ingombrante: i cinquemila soldati americani di stanza nella base di Keflavik.
Per questo, alla sua pubblicazione L’affittuario venne da molti letto, riduttivamente, come un’allegoria della presenza americana in Islanda, sebbene si presti a una analisi molto più sfaccettata e approfondita.
La parola chiave del romanzo è bene in evidenza fin dalla frase di apertura: «Si è così insicuri quando si è in affitto», e il concetto stesso di precarietà torna ben cinque volte solo nella prima pagina, rendendo impossibile fraintendere il tema centrale del romanzo. La minaccia alla sicurezza della protagonista senza nome è già nella mancanza della chiave per la porta della casa dove vive in affitto con il marito – così che un giorno uno sconosciuto si presenta a casa sua e comincia a comportarsi da padrone: batte con forza su porte e pareti per saggiarne la robustezza, si guarda attorno con occhio penetrante, entra in cucina senza essere invitato, poi in bagno, in camera da letto.
In un’atmosfera cupa e surreale, che ricorda tanto gli incubi kafkiani quanto gli stati di sospensione alla Buzzati, assistiamo al progressivo eppure rapidissimo sgretolarsi della quotidianità della donna e del marito Pétur, privati prima del divano, requisito come giaciglio dal nuovo arrivato, poi delle loro serate davanti alla televisione e del rito del caffè, infine di qualsiasi intimità.
Al polo opposto, concrezione di una sicurezza agognata, la casa in costruzione, «che sarebbe stata di loro proprietà, che avrebbero gestito da soli e che poggiava su fondamenta talmente salde da poter dare stabilità anche alla loro vita non appena vi fossero entrati, dotata di una porta esterna e di una serratura che non obbediva a nessun’altra chiave se non alla loro, e che chiudeva all’interno tutta la loro sicurezza con spesse e morbide tende, quelle che avrebbe tirato sul buio alieno al di là delle finestre e delle pareti in cemento».
Inutile dire che il sogno si rivelerà irrealizzabile: le spese crescenti e la disorganizzazione condanneranno la nuova dimora in costruzione a restare un «guscio vuoto», «un’oscenità, una casa deforme», dal cui cemento grezzo «spuntavano ciuffi spennacchiati di fili d’acciaio come fibre di un vecchio panno che si sfrangia». Ed è forse proprio il fallimento di quel sogno a fare emergere un altro filone del romanzo, di certo non secondario, data l’impostazione femminista dell’autrice: la crisi del rapporto tra l’uomo e la donna, l’instaurarsi di una crescente sfiducia nella capacità del marito di governare la propria vita e quella della sua compagna.

Un nuovo straniero
L’irresolutezza di Pétur davanti allo sconosciuto e la sua incapacità di portare a compimento la nuova casa spingono la protagonista a ribellarsi: «Fissò allibita il pugno serrato. Aveva davvero picchiato il pugno sul tavolo, lei? C’era tutta quella forza, nel suo pugno?». Ma anche questo temporaneo empowerment si rivelerà un’illusione: l’affittuario è ormai entrato a far parte stabile della loro nuova casa (fondamentalmente solida, per quanto guscio vuoto e deforme), ma la paura che la donna aveva provato un istante prima di battere il pugno sul tavolo, nella calma della notte le si riversa addosso, più forte di prima. La mattina dopo, sulla spiaggia davanti alle loro finestre, un nuovo straniero passeggia raccogliendo ciottoli, incurante di loro. Incurante, sì, ma fino a quando?