È il 1905 quando Stephen Haweis scatta uno dei ritratti più noti di Mina Loy. Lei ha 23 anni, l’anno precedente ha perso la sua primogenita, Oda. Ancora non lo sa ma in seguito le morirà un altro figlio. In quella foto ha i capelli gonfi e corvini, i lineamenti delicati e gli occhi chiusi con il viso reclinato verso il basso. Chissà cosa le passa per la testa, oltre al disincanto di aver sposato di fretta un uomo conosciuto in una scuola di Montparnasse, come ricorda la sua biografa Carolyn Burke (Becoming modern, 1996), l’aveva rapinata di ogni energia. Perché lui non ne aveva e allora si nutriva delle sue. Quali sono i pensieri di una ragazza nata nel 1882 a Londra da una madre puritana e intransigente e da un padre ebreo fuggito dall’Ungheria in Inghilterra a causa delle persecuzioni antisemite? Presto quella giovane donna riesce ad andare a studiare a Monaco, infine a Parigi, si trasferirà a Firenze, più avanti arriverà a New York.

NEL CORSO dei suoi 83 anni molte sono state le esperienze di Mina Loy: poeta, scrittrice, artista, attrice teatrale e poi ancora designer e attivista, pioniera del femminismo e cristiana scientista. Raccontarne la vita tumultuosa significa attraversare diverse avanguardie, cubismo e futurismo soprattutto, nella sua adesione così come nel suo congedo. Significa stare al cospetto delle numerose relazioni e riconoscimenti ottenuti da Gertrude Stein, T. S. Eliot, Ezra Pound, e ancora Marcel Duchamp, Marianne Moore, solo per citarne alcuni. Ciò per segnalare che, sebbene al principiare del Novecento la sua voce compaia centrale, dotata di intelligenza esorbitante, con la stessa facilità esce dalla scena pubblica senza che nessuno ne reclami il ritorno.

Leggendo adesso The Lost Lunar Baedeker, la sua opera poetica completa appena uscita per Rina Edizioni – che decide di mantenere il titolo originale della prima pubblicazione (postuma, nel 1982 per Jargon Society; in italiano nel 2003 per Le Lettere era apparsa Per guida la luna, una antologia poetica a cura di Antonella Francini) – si entra in una costellazione di segni, immagini e intuizioni. Si accede a uno scrigno utile a comprendere l’esistenza di una eccentrica signora della poesia – i primi versi sono del 1914, gli ultimi del 1949 – maneggiando da subito le parole con insolente regalità concessa solo a chi possiede una visione non comune. Testo a fronte, con la traduzione di Marco Bartoli, l’introduzione di Roger L. Conover e la postfazione di Laura Pezzino, The Lost Lunar Baedeker (pp. 432, euro 20), è letteralmente un «viaggio lunare» che solca il secolo scorso porgendo diverse raccolte poetiche molto diverse fra loro, per collocazione storica e stile.

La passione caustica per il taglio del reale viene però mantenuta alta, e così potrebbe essere letto questo volume cui vengono aggiunti in appendice alcuni testi tra prosa e saggio breve. Il risultato è un documento complesso proveniente dagli abissi dell’inconscio selenico che oscilla tra le macerie umane a cavallo tra le due guerre mondiali; al suo interno si può saggiare l’ironia ineguagliabile di Mina Loy che le fornisce l’agio di canzonare finanche i padri del futurismo, tra cui figurano due dei suoi amanti, Filippo Marinetti e Giovanni Papini che trasforma in Raminetti e Bapini.

C’È POSTO anche per l’ammirazione, come quella riferita a Gertrude Stein cui dedica una poesia in cui le riconosce di essere riuscita a estrarre «il radio dalle parole», oppure nei riguardi di donne incrociate per caso, di cui lei stessa si rende specchio. Sono Cesira, Gina, Petronilla, Filomena e gli infiniti volti incrociati nel suo soggiorno in Italia. Il Manifesto femminista del 1914 (presente anch’esso nell’appendice al volume) è diretto anche a loro, quando con lungimiranza radicale esorta le sue simili a non chiedere parità tra i sessi bensì a sapersi altre dagli uomini. A non cedere al parassitismo, né all’incoscienza di una riproduzione spossessante perché senza desiderio.
È un passaggio importante in cui Loy mostra ancora una volta il suo dire fastidiosamente rivoltoso, ché prenda le mosse da un partire da sé. Non aspettandosi niente in cambio. Anche quando il parterre delle sue frequentazioni le avrebbe potuto permettere il contrario, già dopo il trasferimento negli Stati Uniti nel 1916 e il lavoro prestigioso con i poeti modernisti della rivista Others.

NELLE STRADE DEL MONDO, Mina Loy ha sperimentato la differenza, il prezzo molto caro che si paga quando si è la «santa anomalia» che le è capitato, e poi ha scelto, di abitare: «Come un’ape indaffarata/ l’occhio/ raduna le infinite sfaccettature/ della straordinaria dissomiglianza/ delle facce». Nelle strade di un mondo fallocentrico, cominciando dai suoi compagni futuristi, intercetta il nodo all’origine: «Gli antichi confabulatori/ lo Spirito e la Carne/ non hanno più lingua/ Lo Spirito/ è impalato al cazzo». Sta qui la coscienza di muovere dal proprio corpo. E di non lasciarsi incantare da chi le vuole rifilare assoluti a buon mercato. Si allea dunque con il proprio sé e con altre donne. Le cerca, le immagina, le sostiene, talvolta le attacca duramente. Non per la troppa edulcorazione dei tratti femminili, va loro incontro come una Erinni per ricordare, anche a sé stessa, che diventare donne non è certo un pranzo di gala né una di quelle serate tra i vari «mostri della malasorte» nella Bowery; diventare donne è piuttosto svettare da una solitudine ontologica cui lei replica, altrettanto metafisicamente, con tutta la forza e fragilità che possiede, dalla pratica dello spiritismo agli arcani fino allo sconquasso del nodo selvatico alla radice dell’esserci.

È un percorso poetico, dunque politico, di cui individua bisogni elementari – prima di tutto la sessualità nella sua congiunzione necessaria con la libertà – ed esigenze sofisticate, comprese le deiezioni corporee – per esempio del parto (ne ha avuti quattro) che resta «cerchio doloroso» – o del male che spesso si accetta in nome di un’elemosina sentimentale: «Nel mio Smarrimento/ pongo la domanda estrema/ Può chi ha smesso di essere/ Avere avuto mai esistenza/ Non più un tu come mittente/ non c’è destinatario/ con cui poter scherzare sulla realtà defunta/ Può chi è ancora/ essere inesistente?/ Sono diventata Cieca/ nel rispondere/ al tuo morto linguaggio d’amore». Ecco che riemerge la perdita, si è orbe non solo a causa dei lutti filiali bensì per non aver saputo disarmare il limbo del proprio sentire. Sono versi attuali che parlano alle nostre claustrofobie contemporanee in maniera poco indulgente, suggeriscono in particolare una comunanza con chi sa cosa sia vivere da espatriati, nell’esilio di una parola cui si cercano strumenti tali da renderla più indigeribile, mitica e scostante.

«Househunting» (1950) Collection Carolyn Burke; 59a Biennale di Venezia / foto di Andrea Avezzù

NON È UN CASO che il grande amore della vita di Mina Loy sia stato Arthur Cravan, precursore del dadaismo, poeta e pugile in perenne fuga dalla leva negli anni della guerra. Lo incontra nel 1917, si innamorano perdutamente, lei finalmente divorzia da Haweis e lo sposa poco dopo a Città del Messico dove lui insegnava lucha libre per sopravvivere. Resta incinta e decidono di partire alla volta di Buenos Aires ma è a questo punto che accade l’imprevedibile; a causa della loro povertà lei si imbarca su una nave e lui su un battello che però non arriverà mai a destinazione. Il 10 dicembre del 1917, quando ancora non sa che lo avrebbe seguito, scrive a Mina una lettera (il New Yorker l’ha pubblicata integralmente nel 1997) in cui le confessa il proprio essere perso e le domanda di dimenticare il passato. Ero pieno di bugie, scrive, ma ora voglio solo vivere nella verità. Poi la sparizione, in fondo al mare o chissà dove, che sembra voler ribadire simbolicamente la parabola ammutinata di chi come loro ha praticato la diserzione.

«Ama l’orrido», scriveva Mina Loy in una poesia degli anni Quaranta, «in modo da trovarne il cuore sublime». Sembra averlo fatto davvero. In un assemblaggio del 1950, (Househunting, in mostra all’ultima edizione della Biennale di Venezia) è dipinta la testa di una donna che al posto del cervello ha una serie di oggetti di uso casalingo, un gomitolo di lana, un ferro per lavorarla, dei panni e infine una scala che non porta da nessuna parte. Da lì a poco si trasferirà con le figlie Joella e Jemima ad Aspen, in Colorado, dove morirà nel 1966. Molte sono le cose uscite dalla mente di Mina Loy però, per esempio è del 1933 un disegno intitolato Stars in cui ancora una volta alcune figure hanno il cranio simile a un cratere lunare da cui fuoriescono delle stelle, del contarle nella loro «dismisura» aveva già detto in una poesia. Uno per uno sono indizi che ricompongono quello sguardo dapprima timido e poi frontale verso un orizzonte più largo e carico di presagi. E accada ciò che deve accadere, pare volerci dire: «Non c’è Spazio né Tempo/ Solo intensità,/ Le cose addomesticate/ Non hanno immensità».