Visioni

Mina, l’incanto in un arabesco ovvero cantare con le mani

Mina, l’incanto in un arabesco ovvero cantare con le maniMina esegue «Lamento d’amore» nell’ultima puntata del 12 maggio 1973 di «Hai visto mai?» con Gino Bramieri e Lola Falana – foto Archivio Rai

Sguardi Dietro una voce unica, l’artista cremonese ha fatto della gestualità parte fondante del suo stile

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 4 agosto 2024

Le imitatrici italiane – da Loretta Goggi a Emanuela Aureli – lo sanno bene: è sufficiente sgranare gli occhi, congiungere pollice e indice e roteare la mano davanti al volto per diventare Mina. La riconoscibilità è subitanea. E paradossale: per evocare la voce più invisibile e iconica della musica italiana non serve alcun suono. Basta il gesto. Questa gestualità si è delineata nel corso di vent’anni all’insegna di una costante metamorfosi. La prima Mina si muoveva in modo completamente diverso. Ma era già una rivoluzionaria. Il suo avvento ha segnato una linea di demarcazione nella canzone italiana, rendendo improvvisamente obsolete le colleghe tutte, ancora imbevute di educata compostezza gestuale e di mani portate all’altezza del cuore.

A DENUNCIARE l’assenza di consapevolezza scenica da parte delle voci italiane del periodo – ancora memori dell’invisibilità radiofonica – è stato l’avvento della televisione. La prima apparizione di Mina – spuntata nell’aprile del 1959 dal juke-box del Musichiere – ha segnato una svolta. Quella ragazzina che eccedeva in volume, che spezzava e deformava le parole e che accentuava il ritmo strattonando le braccia è stata la prima ad assecondare le esigenze sceniche del piccolo schermo. L’affinamento, istintivo, è repentino. Sei mesi dopo, a Canzonissima ’59, Mina appare improvvisamente cresciuta. Le braccia in sempiterno movimento hanno perso in legnosità per distendersi più morbide e flessuose. Ripropone Nessuno, in duetto con Wilma De Angelis, rivelando una gestualità che non rimarca più solo il ritmo – demandato a uno schioccare di dita – ma accompagna anche la linea vocale. L’impertinente urlatrice è già una stella capace di scintille jazzistiche e di una gioiosa gestualità che i commentatori più autorevoli dell’epoca – generazionalmente ancorati a modelli teatrali e radiofonici – non comprendono. Confondono il «movimento» con la «danza». E definiscono Mina una «soubrette», la associano a Garinei e Giovannini e auspicano un imminente passaggio al mondo della rivista.

IN REALTÀ, più che con il teatro, Mina è la prima figura in sintonia con lo specifico televisivo. Per tutti gli anni Sessanta, quelli di Studio Uno e Canzonissima, Mina ha modo di adattare il proprio istinto scenico alle esigenze registiche con una prontezza e una consapevolezza sorprendenti. La venerazione riservatale da Antonello Falqui non è casuale.
Aspetto degno di nota è la direzione dello sguardo. Sembrerebbe una minuzia. Invece è la componente integrante della gestualità, il ponte che la indirizza. Fateci caso: ci sono cantanti che non rivolgono mai lo sguardo alla camera, chiusi in loro stessi, indifferenti a quel che c’è intorno; per contro, ce ne sono altri che ostentano una fissità, talvolta ammantata di pretese seduttive. Mina è la cantante che meglio ha saputo bilanciare i due approcci. Sa abbracciare con lo sguardo la platea fisicamente presente. E sa come mantenere vivo il filo di complicità con la telecamera – e, dunque, con ogni spettatore – senza eccedere in fissità un secondo più del dovuto.
Un altro aspetto interessante della gestualità è rappresentato dai condizionamenti tecnici. Pensiamo alla gestione del microfono. C’è chi usa l’asta, espediente standard che taluni hanno eletto a formula estetizzante, ammantata di ieratica e studiata teatralità. E c’è chi è abituato a staccare il microfono e a portarselo in giro per il proscenio. Operazione oggi agevolata dai microfoni wireless ma, in passato, vincolata da fili da spostare con impercettibile leggiadria.
Di norma, le voci abituate a servirsi del microfono a mano sono anche quelle in possesso di maggiori consapevolezze tecniche ed espressive. Avvicinandolo e allontanandolo, è possibile pre-mixare la voce o inseguire effetti preclusi al microfono fisso. Un esempio è legato alle due versioni a Teatro 10 di Grande grande grande. Nella prima puntata, Mina canta di fronte all’asta, senza la possibilità di pre-mixarsi e contenere le escursioni di volume, che vengono schiacciate ruotando leggermente la testa per sfruttare la direzionalità del microfono. Nell’ultima puntata, Mina ripropone il brano con il microfono in mano. Ha la possibilità di attutire i picchi e di uniformarsi alla base strumentale, rendendo lo stesso passaggio più fluido e naturale. C’è una terza versione coeva di Grande grande grande, quella de L’Amico Flauto. Mina la esegue alla giraffa. E anche in questo caso, nell’impossibilità di smorzare il volume allontanando il microfono, deve comprimere le voce. Ma senza ruotare la testa, perché, al contrario del microfono tradizionale, la giraffa cattura i suoni in accezione ambientale. Insomma: una stessa canzone, tre esecuzioni, tre tipologie di microfoni, tre diversi espedienti tecnici per arginare i picchi di segnale e – naturalmente – tre diversi modi di muoversi e di utilizzare fisicamente lo spazio. Sotto il microfono. Dietro il microfono. O con il microfono in mano.

Dal vivo si muove in modo radicalmente diverso. Nei corti pubblicitari opera una progressiva dissoluzione fisica, dove entrano a far parte del gioco anche i capelli

NELLA SUA VENTENNALE carriera televisiva, Mina ha rivelato piena consapevolezza nell’utilizzo scenicamente ragionati delle varie tipologie di microfono, rivelando – specie dagli anni Settanta – una tacita preferenza per il microfono a mano, il cui uso consapevole si esplica al meglio nelle sue forme più minimaliste. Come in Una donna, una storia da Teatro 10, dove la struttura a feuilleton del testo è suggellata da continui cambi di camera intorno al primo piano di Mina, in progressivo avvicinamento, chiamata a girarsi con tempismo perfetto. In questo brano Mina è in sincronia assoluta con i cameramen, rigorosissima vocalmente, padrona del linguaggio televisivo e delle tecniche a esso correlate ma senza sacrificare alcunché alla concentrazione interpretativa, suggellata, nel finale, da un cenno di tangibile commozione. E per soppesare pienamente il controllo vale la pena soffermarsi sullo sguardo, talvolta rivolto a un altrove indefinito e occasionalmente diretto alla telecamera, quasi a creare un filo intimo ed emotivo con lo spettatore.

Dal juke box del «Musichiere» ai sabato sera, la consapevolezza scenica

E come sorvolare sul duetto con Battisti, dove Mina traduce, nella gestione stessa del microfono, eccitazione musicale, understatement (il controcanto di Io e te da soli, con Mina che si subordina, anche spazialmente, a Battisti), giocosità (Eppur mi son scordato di te), energia (Il tempo di morire) e solenne ieraticità (in Emozioni).
Un campo d’azione a parte della gestualità in musica è rappresentato dal playback, contro cui Mina si è più volte scagliata ma di cui ha fatto genialmente tesoro nei tanti caroselli. In questi cortometraggi – realizzati con procedure cinematografiche e possibilità tecniche ancora precluse al piccolo schermo – era lecito concedersi accorgimenti scenici che nelle ordinarie apparizioni televisive sarebbero apparsi innaturali e sopra le righe. Mina ne cavalca la formula, concedendosi, in certi casi, una gestualità ancor più caricaturalmente marcata. Ed è in buona parte merito di questi corti – che negli ultimi anni di visibilità superano le apparizioni televisive propriamente intese – se il gesto mazziniano, quello di cui dissertavamo all’esordio, è così prepotentemente entrato nell’immaginario collettivo.
In questi cortometraggi, Mina opera una progressiva dissoluzione fisica. Il volto e le mani acquisiscono un risalto ancor più accentuato. Ed entrano a far parte del gioco gestuale anche i capelli, tratto distintivo nelle ultime prove televisive. Valga, per tutte, Ancora ancora ancora di Mille e una luce, del ’78, l’addio ufficiale di Mina al piccolo schermo.
Più che con il teatro la sua è la prima figura in sintonia con lo specifico televisivo. Nei ’60 ha modo di adattare il proprio istinto alle esigenze registiche con prontezza

MENTRE la gestualità per il piccolo schermo può essere rivolta al pubblico in sala o al singolo spettatore, nella dimensione live il gesto è indirizzato univocamente a una platea presente. Formula che richiede una gestualità più teatrale e macroscopica che riguarda l’intero corpo e non solo porzioni di esso. Mina on stage, come dimostrano le testimonianze video, si muoveva in modo radicalmente diverso da quella televisiva, con braccia che si estendevano linearmente, piegamenti e torsioni corporee per assecondare i passaggi vocali più ostici, arabeschi di mano ben più ampi, contrazioni del volto, movimenti repentini preclusi alle esigenze del piccolo schermo, inchini e abbracci ben più plateali e corali. L’ultimissima testimonianza visuale e gestuale di Mina riguarda la sala d’incisione. Qui, il gesto scenico perde qualsiasi ragion d’essere. Perché per cantare non è affatto necessario muoversi. E, in assenza di spettatori, viene meno il concetto di comunicazione visiva. Le riprese di Mina in Studio, del 2001, parlano chiaro. Qui non c’è alcuna intenzione di creare un ponte diretto con chi guarda. L’unico canale di comunicazione è la musica, priva di gestualità, senza il ricorso alle formule istituzionalizzate del piccolo schermo o dei palcoscenici live. Come se Mina fosse letteralmente spiata. C’è un unico cenno rivolto a chi guarda: un fugace, educato e cortese sfarfallio di mano. Non più da «cantante» ma da «signora».

( * rielaborazione di un articolo pubblicato sul numero 94 della rivista del Mina fan club www.minafanclub.it)

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