L’8 marzo 2017, a seguito di una protesta per denunciare gli abusi e le violenze subite, 56 ragazze adolescenti venivano rinchiuse e lasciate bruciare vive nel rogo dell’Hogar Seguro a Città del Guatemala.

A UN ANNO DI DISTANZA, restano le controversie. Come divampò l’incendio? Quando cominciarono a dar fuoco ai materassi. Come successe? Appoggiarono i materassi di fronte alle finestre sbarrate e accesero il fuoco. Chi accese il fuoco? Mimì. Conoscevamo solo il suo soprannome. Che cosa successe dopo? Cominciammo a colpire la porta affinché ci aprissero. Non lo fecero. Quanto tempo rimaneste rinchiuse dopo che iniziò l’incendio? Almeno dieci minuti.
Mimì ha acceso il fuoco. Si è fatta spazio, ha afferrato il materasso e gli ha dato fuoco.

Forse un atto disperato, un’improvvisazione. Forse non sa perché lo ha fatto, Mimì. Forse. Iris, 14 anni, al contrario sapeva bene cosa voleva fare da grande: voleva diventare stilista professionista, imparare l’inglese, studiare le scienze e le lettere. Yoselín, 15 anni, voleva essere maestra. Keyla aveva appena compiuto 16 anni. Rosa voleva diventare segretaria e aiutare la famiglia. Ashely sarebbe stata veterinaria. Forse Mimì non sa perché ha acceso il fuoco, forse non sapeva nemmeno cosa voleva fare dopo: maestra, dottoressa, scienziata o stilista come Iris. Forse non voleva nessuna di queste cose: forse voleva solo più vita. Proprio come Estafany, 16 anni.

Se avessero vissuto, forse, di Mimì, Iris, Yoselín, Keyla, Rosa, Ashely ed Estefany, non sarebbero rimasti solo i sogni, oltre alle ceneri. Non sarebbe rimasta solo la memoria; come quella del rogo nella fabbrica a inizio ’900, in cui morirono più di cento donne e operaie: memoria che col tempo diventa leggenda.

A CITTÀ DEL GUATEMALA non sarebbe rimasto solo il bilancio di una strage: ne mancano 41. Una contraddizione in essere: Hogar Seguro in castigliano significa «casa sicura». Nel linguaggio comune, si definisce così una rete di istituti in cui vengono internati i minori di età considerati «casi difficili».

Tra questi, nella città per antonomasia, la capitale, sorge – o meglio sorgeva – l’Hogar Seguro Virgen de la Asunción, che non solo per il nome è una contraddizione in essere. In un tessuto urbano costruito a compartimenti stagni sulla base di criteri etnici e sociali – le cosiddette zone – l’Hogar Seguro si trova, ironia della sorte, nella zona più esclusiva, su una collina nel municipio di San José Pinula.

In questa zona ristretta e circondata da alberi e boschi artificiali, vivono solo i ricchi: famiglie dell’oligarchia che da sempre si tramandano il potere, vertici militari, narcos, ambasciatori e corpo diplomatico di un certo tipo di cooperazione internazionale.

L’Hogar Seguro è una contraddizione. Nel Guatemala dei salotti comodi, vengono rinchiusi i «casi difficili»: bambini e adolescenti tra 0 e 18 anni colpevoli di appartenere a famiglie povere o di aver subito violenza fisica, psicologica e sessuale; persone con disabilità lievi; giovani abbandonati, piccoli vagabondi, bambini vittime della droga e della tratta umana, dello sfruttamento sessuale, commerciale, economico, del lavoro. Merce fresca al servizio delle mafie locali e dei grandi circuiti del crimine organizzato. Contraddizione: rinchiudere ciò che non si vuol vedere. Chiunque viva qui, sa che questo è un inferno.

«VOI NON USCIRETE da qui finché non mi avrete fatto del sesso orale». Fu l’ordine di un maestro dell’Hogar Seguro Virgen de la Asunción alle alunne di 12 e 13 anni quando da poco si era conclusa la lezione. Nessuna di loro poté evitare l’abuso.

Lo stesso maestro, secondo le indagini del Ministero Pubblico, obbligava le alunne a vestirsi in modo provocatorio e a camminare nude nell’aula. Ma gli orrori nella «casa sicura» non finiscono qui: un impiegato stuprò una ragazza di 13 anni con handicap mentale; un altro abusò di un bambino di 8 anni, mentre una ragazza poco più grande fu violata dallo psicologo dell’istituto. Questi i casi conosciuti e a cui seguirono condanne penali.

NEL SILENZIO COMPLICE, rimangono tutti gli altri. Rimangono le violenze e le violazioni, le botte e le torture. I bagni spesso fuori uso, il cibo scarso e di pessima qualità. Le sparizioni improvvise dei giovani, venduti alla tratta e la prostituzione. Rimane il terrore delle atrocità contro bambini e adolescenti rinchiusi in un inferno diario. Un istituto in cui si ammassavano 800 persone malgrado fosse stato pensato per 500; molte erano ragazze incinte, altri erano nati lì: testimonianze vive degli abusi consumati.

Fu una ribellione di bambine. Il 7 marzo 2017, all’ora del tramonto, circa 85 giovani decisero di scappare da quell’inferno. Ruppero i lucchetti dei cancelli e tentarono la fuga fra il bosco artificiale del quartiere residenziale. Solo 19 di loro riuscirono nell’intento: tutti gli altri, a distanza di pochi minuti, furono intercettati dalla polizia e riportati nell’Hogar Seguro. Il presidente del Guatemala, Jimmy Morales, ordinò che oltre 250 poliziotti in tenuta antisommossa si trattenessero per mantenere il controllo. La stessa notte si consumò la vendetta. Dopo le prime botte, i giovani che avevano tentato la fuga vennero divisi in due gruppi: i ragazzi rinchiusi a chiave nell’uditorio principale, le ragazze in un’aula destinata a varie attività, senza possibilità di uscire nemmeno per andare in bagno. Erano 56.

LA MATTINA DELL’8 MARZO, dopo oltre sei ore passate nell’aula, Mimì accese il fuoco. Altre bambine fecero lo stesso: di fronte alla finestra, perché si vedesse. Colpirono la porta, affinché qualcuno la aprisse.

Non successe. La polizia impedì agli altri ragazzi internati di prestare ausilio e quando arrivarono le ambulanze ne ostacolò il passaggio. Quando aprirono la porta, 19 ragazze erano già morte. Ci vollero giorni per identificare i corpi, nell’angustia di genitori e famigliari.

Altre furono trasportate nei vari ospedali della città, dove alcune, poche, sopravvissero, mentre le altre morirono nei giorni seguenti per le bruciature. Furono 41.

Non lo hanno fatto per il sapore del cibo. Una strage di Stato. Rimangono alcune domande, oltre alle ceneri e ai pianti: chi rinchiuse le ragazze nell’aula e impedì che potessero uscire? Chi le abusò e le violò? Chi negò loro cibo e condizioni umane? Per rispondervi, il giorno seguente al rogo fu organizzata una conferenza stampa a cui parteciparono la Procuratrice Generale della Nazione, il segretario del Benessere Sociale, il portavoce della Polizia Nazionale Guatemalteca e il commissario della Procuratoria dei Diritti Umani.

IL PRESIDENTE MANDÒ un suo rappresentante: la sua assenza fu giustificata con «questioni urgenti». Si dissero tante cose orribili, fu il secondo massacro. Si disse che le ragazze erano casi difficili: bambine che nascondevano oggetti pungenti fra i capelli, giovani criminali e ricattatrici; si disse che non si poteva parlare con loro. Non ci fu nessuna tortura, nessun abuso, si disse: le ragazze si ribellarono perché non apprezzavano il sapore del cibo. Non ci fu nessuna negligenza.

«La responsabilità è di tutti»: questo il messaggio del presidente Morales, quando ordinò la sospensione temporanea dell’istituto. Eppure molti si ostinano a credere che queste parole non rispondono ad alcuna domanda. Si ostinano a ripetere che dal 2013 erano state presentate denunce per le violazioni all’interno dell’Hogar Seguro; che nel dicembre 2016 il Tribunale dell’Infanzia e Adolescenza dell’Area Metropolitana aveva condannato lo Stato del Guatemala per le violazioni commesse contro i minori all’interno di quell’istituto. Che aveva preteso cambi sostanziali, tanto nella struttura quanto nel personale. Cambi a cui non fu dato nessun seguito.

Alcuni si ostinano a dire che lo Stato non ha assunto le responsabilità dovute né prima né dopo, quando si rifiutò di pagare i funerali o di preoccuparsi della sorte di chi era sopravvissuto a fuoco e abusi.

Altri osano insinuare che lo Stato è colpevole per il sistema ingiusto su cui si erige: lo dimostra il caso di Mayra Chután, una delle 41, costretta a morire nell’Hogar Seguro perché la famiglia non poteva pagare i 160 euro necessari per il riscatto. Ne mancano 41. Ne rimangono 15. Sopravvissute.

Rimane un processo in corso e alcune persone arrestate per omicidio colposo, inadempimento a doveri e maltrattamento di minorenni: fra questi, il vice commissario e la vice ispettrice della Polizia Nazionale , la responsabile dell’aiuto all’infanzia e all’adolescenza della Procuratoria dei Diritti Umani.

RIMANGONO BOTTE e torture, violenze e violazioni. Rimangono 41 bambine e ragazze scomparse. Bruciate vive nel rogo dell’Hogar Seguro. Rimangono le ceneri loro e di una società che ha sofferto 36 anni di guerra civile. Rimane il genocidio della popolazione indigena Maya Ixil al tempo di Rios Montt.

Rimangono più di 250mila morti e 45mila desaparecidos. Rimane che nel paese dell’eterna primavera, i fiori muoiono di asfissia. Rimangono i corpi di 41 bambine uccise perché non erano ricche e non erano bianche. Perché erano stufe. Perché erano donne.