La conoscenza nel nostro paese di O. V. de L. Milosz è piuttosto circoscritta, basandosi perlopiù sulla pubblicazione di tre libri molto differenti tra loro: i drammi Miguel Mañara, Mefiboseth e Saulo di Tarso (Jaca Book, 1977), il romanzo L’amorosa iniziazione (Città Armoniosa, 1979) e il florilegio poetico Sinfonia di novembre (Adelphi, 2008), curato da Massimo Rizzante e arricchito da una prefazione di Milan Kundera. Quest’ultimo, partendo dall’esclusione operata da Gide ai danni di Milosz in un’antologia della poesia francese, ricorda come lo stesso non avesse «nulla a che vedere con quell’antologia; la sua poesia non è francese; si era rifugiato nella lingua francese come in una certosa». Milosz medesimo dichiarerà di essere «un poeta lituano che scrive in francese». Nato a Czereïa nel 1877, nel cuore della Bielorussia, ma fiero del suo antico lignaggio lituano, Oskar Władysław Miłosz, la cui madrelingua era il polacco, a partire dal 1931, data in cui ottenne la cittadinanza francese, assunse il nome di Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, firmandosi con le sole iniziali; dal 1919 divenne diplomatico della Repubblica di Lituania. Partito da posizioni riconducibili a un tardo simbolismo che si rifaceva a Baudelaire, Verlaine e Laforgue, stampò, con l’eccezione dei Poèmes editi da Fourcade nel 1929, tutti i libri a proprie spese, crucciandosi per la mancanza di un editore che potesse far conoscere in maniera adeguata la sua opera composita.
Esce adesso per le Edizioni Medusa, con valida traduzione di Laura Madella, La chiave dell’Apocalisse Le origini iberiche del popolo giudaico (pp. 126, € 16,00) che contiene tre scritti esegetici sulle Sacre Scritture. Si tratta di testi risalenti agli anni trenta, pervasi da un farneticante trasporto mistico-religioso manifestatosi dopo che, nella notte del 14 dicembre 1914, in «perfetto stato di veglia», il poeta ebbe una visione che mutò radicalmente la sua vita. In tale visione, ricostruita in maniera particolareggiata nell’Épitre à Storge, Milosz racconta di essere stato trasportato da una forza misteriosa in cima a una «possente montagna», di fronte alla quale sorse «una sorta di uovo gigantesco e rossastro» che, dopo varie acrobazie, si accostò al poeta, arrecandogli «la sensazione inesprimibile di una realizzazione suprema, di una pacificazione finale, di una cessazione completa di tutte le operazioni mentali, di una realizzazione sovrumana dell’ultimo Ritmo».
Da qui la conversione di Milosz che ritorna a più riprese sulla simbologia cristiana contaminandola con elementi sincretistici, come annota Marco Paliaga nella sua esauriente prefazione: «Utilizzando l’immagine del sole, in memoria del mistico svedese Emanuel Swedenborg, Milosz sostiene che l’uomo abbia dimenticato l’unità primordiale con Dio, e perso dietro il suo scetticismo, precipita di conseguenza nella notte dell’oblio spirituale». Oltre a quelli presentati in questa sede, i testi che risentono di tale temperie filosofica, spesso sconfinante in vaticinio e profetismo di ascendenza veterotestamentaria, sono Ars magna (1924) e Les arcanes (1927), anche se tracce di un simile percorso sono riconducibili a vari altri scritti, confluiti nelle Œuvres complètes, pubblicate in tredici volumi fra il 1957 e il 1994 dalle Éditions André Silvaire, a cui idealmente andrebbero aggiunti i numerosi Cahiers dell’associazione Les amis de Milosz.
Il primo testo presentato è Le origini iberiche del popolo giudaico in cui Milosz rivendica, sulla scorta di alcuni vocaboli basco-cantabrici, l’antichissimo retaggio ispanico del Popolo Eletto. Nonostante siano trascorsi «dieci o dodici millenni (…) dalla separazione delle due nazioni, ebraica e basca, diverse centinaia di parole delle due lingue si possono tuttora ricondurre a una comune matrice preistorica». Milosz riporta al riguardo svariati esempi, facendo lunghe digressioni intorno a termini che presenterebbero radici comuni, come quello che farebbe derivare l’Eden da «An-da – Andalusia».
In L’Apocalisse di san Giovanni decifrata l’autore interpreta i versetti dell’Apocalisse alla luce delle sue «dimostrazioni anagrammatiche» (Milosz era un poliglotta che conosceva parecchie lingue, tra cui inglese, tedesco, italiano, russo, polacco, oltre ad aver compiuto studi di epigrafia ebraica e assira sotto il magistero di Eugène Legrain, traduttore della Bibbia). Dopo aver riportato i passaggi dell’Apocalisse, Milosz presenta una spiegazione contenente la permutazione di un termine che figura in quel brano, con sorprendenti richiami alle vicende politiche e storiche del tempo, non disdegnando talora di includere riferimenti alla sua stessa occorrenza biografica. La Bestia che sorge dal mare con il suo simbolo numerico 666 («Il sei, nel sessantasei, è contenuto undici volte. Undici, in euskadi, si dice AMECA»), già raffigurata in un dipinto di William Blake, non potrà che essere l’America; mentre dal termine SOURIEN si arriva, attraverso una serie di passaggi intermedi, a RUS, «antico nome russo della RUSSIA».
È d’altronde significativo che Milosz abbia pubblicato tale testo a proprie spese in una plaquette fuori commercio nel 1933, richiamando l’analoga esperienza delle Nouvelles Révélations de l’être di Artaud, stampate in forma anonima da Denoël nel 1937 e contenenti una serie di brani dal tono apocalittico, in cui si riversano vari tipi di discipline: alchimia, astrologia, numerologia, chiromanzia, lettura dei tarocchi. Tali esperienze sono riconducibili a quella Kulturkritik che ebbe ampia diffusione in Europa nei primi decenni del Novecento e soprattutto nell’entre-deux-guerres, investendo figure di rilievo ma profondamente dissimili come Guénon, Daumal, Spengler, Ortega y Gasset.
In La chiave dell’Apocalisse, l’ultimo breve saggio – risalente al 1938 – riportato nel volume di Medusa, si legge, richiamandosi a una profezia ricavata dal testo precedente: «La decrittazione degli ideogrammi ebraici della Bibbia ci ha consentito di determinare il periodo finale di sei anni che ci separa dal gennaio 1944 e che marcherà i principali avvenimenti in quest’ordine: conflagrazione universale, annientamento dell’America con il fuoco, dell’Inghilterra con il fuoco e l’acqua, della Russia a causa del crollo di una parte della Luna». D’altronde già Czesław Miłosz, il poeta polacco insignito del premio Nobel, nella Terra di Ulro precisò che quel lontano cugino «esiliato, ovunque straniero, era un romantico non foss’altro che per la sua stessa nostalgia, e il paradiso perduto dell’infanzia nella sua mitologia privata si trasforma impercettibilmente nel paese ideale della futura umanità rigenerata». È logico che, con tali presupposti, l’opera di Milosz aspirasse a una palingenesi di derivazione messianica, come risulta dai Deux messianismes politiques, il cui bersaglio diventano «lo scetticismo dominante, che il poeta definisce spirito negativo, e il materialismo», come avverte ancora Paliaga.
Così scrisse l’amico Petras Klimas il 13 maggio 1933: «Milosz in trance mi annuncia che Dio gli ha permesso di divulgare le rivelazioni trovate nell’Apocalisse. Poi cade in ginocchio e ringrazia per la grazia ricevuta. Tutto questo gli porta terribili tormenti di giorno e di notte che gli danno l’impressione di essere assediato dalla follia. Le sue argomentazioni, però, scorrono lucide e ragionevoli. Nell’Apocalisse tutto è previsto: l’America, l’impero del diavolo e di Satana, che ha richiuso il mondo in una rete di sortilegi diabolici. 666 è la sua cifra, lo confermano l’ebraico e il basco, lingue che svelano il nome nascosto dietro quel numero: America».
Nel 1938 Milosz si ritira a Fontainebleau dove coltiva la sua passione francescana per l’ornitologia. Si spegne il 2 marzo del 1939 nel suo minuscolo appartamento a causa di un’embolia dopo aver cercato inutilmente di catturare un uccellino scappato dalla gabbia. Sulla sua lapide, nel cimitero di Fontainebleau, è incisa la semplice, essenziale definizione di «poeta e metafisico».