Ucronia e romanzo giallo, pastiche storico e affabulazione labirintica si ritrovano nel Dizionario dei Chazari, che lo scrittore serbo Milorad Pavic diede alle stampe nel 1984 in due versioni, una femminile e una maschile, differenti tra loro in un unico paragrafo. Pubblicato da Voland (dopo una edizione Garzanti esaurita da tempo, in una nuova traduzione di Alice Parmeggiani, pp. 357, € 20,00) nella sua «copia femminile», questo romanzo-lexicon in mille parole rende ogni cosa presente, fuorché il presente. Il tempo non procede, si torce attorno alla vicenda enigmatica e mitica dei chazari, popolo di probabile origine turca, altrettanto probabilmente stanziato nell’area caucasica ma scomparso dalla geografia e dalla storia un istante dopo la propria conversione in massa.

Molte ipotesi sono state fatte sulla religione alla quale si convertirono i chazari tra l’VIII e il IX secolo, in particolare è nota – tristemente, viste le varianti ad uso politico che ne sono derivate – quella formulata da Arthur Koestler che diceva fosse l’ebraismo, finendo per identificare i chazari con una «tredicesima tribù», rispetto alle dodici di Israele, coincidente con gli ebrei dell’Europa orientale.

La nuova fede
Pavic è più raffinato e, come nella favola dei tre anelli popolarizzata da Lessing, istruisce il lettore sull’esistenza di una verità, che nessuno – nemmeno il narratore – sa localizzare: chi tra il cristiano Cirillo, il musulmano Farabi ibn Kora e l’ebreo Isaak Sangari riuscirà a convincere il sovrano chazaro ad abbracciare la nuova fede?

Il romanzo tace ed è a quel punto che le tre figure «trasmigrano» nel tempo, in un procedere secondo le movenze dell’eterotopia di Borges, più che dietro vere e proprie linee narrative, ricomponendo a oltre un secolo di distanza una nuova triade – Avram Brankovic, Jusuf Masudi e Samuel Coen – che, nel cuore della guerra tra Serbi e Turchi, nel 1689, si ritrova per riflettere sulla sorte chazara oramai persa nelle nebbie del tempo.

Pavic gioca scomponendo e ricomponendo il suo «falso storico» in tre diversi dizionari – rosso, verde, giallo – scritti in greco, ebraico, arabo, rilanciando la mano su «originali» che a loro volta si scompongono e rimandano, in un processo indefinito e probabilmente infinito, ad altri supposti originali.

I tre dizionari, come le triadi di personaggi, si muovono spinti da forze centripete e centrifughe insieme: gravitano nel tempo, come le loro verità. Tutte presenti, vive finché si scontrano. Morte, quando viene meno la relazione o il conflitto. Tutte le «verità» hanno comunque un senso in questa stasi, ma nessuna possiede quello ultimativo. Pavic lascia intendere che non vi è possibilità alcuna di scoprire un dato reale sui chazari, né sulla loro conversione, né sulla loro dispersione.

Ritardi dell’eternità
«Il tempo – commenta ancora Pavic, in pagine dove riscrive la genesi dell’Adam Kadmon kabbalistico – è solo quella parte di eternità che ritarda». Come ha scritto Jovan Delic, non è la linea e nemmeno il circolo, ma il prisma il modello logico-concettuale che muove il romanzo. Ogni elemento della triade (i tre dizionari, i tre teologi, i tre contendenti, le tre epoche nelle quali si dipanano i racconti) esiste solo nella relazione con un altro assente, il popolo chazaro, e il suo centro vuoto: il dizionario, il libro.

Anche la temporalità degli eventi sembra muoversi seguendo questa logica: il piano medievale e quello moderno sono rappresentati da due strati tematici del romanzo, cioè la base superiore e inferiore del prisma, mentre il piano mediano è seicentesco. Tra un livello e l’altro del prisma – ha osservato un’altra attenta interprete, Jania Jerkov – i rapporti sono dinamici e l’autore li dipana abilmente in un’ars combinatoria geometrica e fantasmagorica.

Come un prisma scompone la luce, così la combinatoria di Pavic disloca il proprio oggetto e lascia infine solo il lettore con il proprio desiderio di saperne di più sulla conversione chazara. Ironico, Milorad Pavic si rivolge a quel lettore ideale così: «non occorre neppure la clessidra dentro il libro, a ricordargli quando si deve cambiare il modo di leggere».