Star internazionale del «teatro documentario», ovvero la rielaborazione drammatica di eventi reali, Milo Rau è ormai una presenza familiare anche per gli spettatori di Romaeuropa. Dopo due lavori dedicati a sanguinosi drammi individuali, le ragazzine sequestrate e seviziate da Marc Dutroux (Five easy pieces) e l’omicidio di un omosessuale a Liegi (La reprise), il regista svizzero (ma basato a Gent, in Belgio) torna alle grandi tragedie del nostro tempo, com’era stato in passato per le guerre in Congo e Ruanda. Come vuole il titolo, Orestes in Mosul porta la tragedia di Eschilo sulle sponde del Tigri. Là dove sorgeva l’antica Ninive, la fastosa capitale dell’impero assiro, e ora restano le rovine della città che è stata per tre anni la capitale di Daesh, il cosiddetto Stato islamico.

TEMPO FA, Milo Rau ha elaborato un decalogo in stile Dogma 95 (vedi Lars von Trier) contenente le rigide prescrizioni imposte al suo teatro e anche in questo lavoro vi si attiene: almeno due attori non professionisti e almeno due lingue diverse parlate sul palco, almeno un quarto delle prove fuori da uno spazio teatrale e in una zona di crisi o di guerra, non più del venti per cento della durata preso da un testo preesistente e così via (ne ha parlato nell’intervista pubblicata lo scorso martedì sul nostro giornale). Anche la struttura scenica è quella ormai ben collaudata. Due stazioni simmetriche ai lati della scena dove siedono gli attori non impegnati nell’azione. Un grande schermo centrale dove si alternano le riprese effettuate durante la preparazione dello spettacolo (dialoghi sul campo, interviste con artisti iracheni, frammenti di prove…) con quelle riprese sul palcoscenico stesso dell’Argentina e proiettate a doppiare in «real time» e inquadrare l’azione reale. Ecco così che là la figlia di Agamennone, Ifigenia, è una giovane donna in niqab che viene uccisa mediante un lento e penoso strangolamento, accanto a uomini in tutta arancione che cadono uno dopo l’altro con un colpo alla nuca. Mentre qui sul palco, la cena di benvenuto, molto borghese, che la regina offre al marito di ritorno dalla guerra e alla sua schiava Cassandra, nel chiuso di uno spazio che riproduce forse un locale frequentato a Mosul, si dilata sullo schermo nei primi piani dei volti su cui insiste la videocamera. La vicenda procede per sbalzi, privilegiando i momenti cruenti (uno degli interpreti definisce sanguinolenta la tragedia: non è proprio così) e lasciando poco spazio al coro che ne sarebbe il protagonista. E magari sfidando la cultura musulmana con un bacio non proprio filologico fra Oreste e Pilade, girato sul tetto dell’edificio da cui negli anni dell’Isis venivano precipitati gli omosessuali. È haram, gli dicono, senza farlo desistere.

È ABBASTANZA evidente che l’Orestea di Eschilo è poco più che un pretesto per Milo Rau. O meglio, è solo una base su cui appoggiare il discorso che gli interessa, che forse l’ossessiona. Quel che avviene alla fine delle stragi, dei genocidi. La scelta difficile fra vendetta e perdono – concetto quest’ultimo del tutto estraneo alla tragedia. Cosa fare di quei combattenti che hanno ucciso e distrutto. Cosa fare anche della ragazza rapita da scuola e andata sposa a un uomo dell’Isis, la cui voce ci arriva da un campo di concentramento. Ed è il momento di maggior verità dello spettacolo.