Ci sono cose che non si trasfigurano mai. Per esempio, i project nei quali si muove l’umanità del notevole horror umanista diretto da Michael O’Shea e presentato nell’ambito del Certain Regard. Un lavoro a tratti genuinamente disturbante e che riesce persino a riproporre quella specie di «noia» stupefatta che era una caratteristica profonda di cineasti come Jean Rollin o di film come The Velvet Vampire di Stephanie Rothman. Milo (il sorprendente Eric Ruffin), ragazzo afroamericano dall’età indefinibile e vittima degli atti di bullismo delle gang del quartiere, è, o forse immagina di essere un vampiro.

Il film si apre su Milo che succhia avidamente lo squarcio alla gola di una delle sue vittime in una toilette di una stazione. Un incipit degno di Larry Clark. I rumori, simili a quelli di un atto sessuale consumato velocemente, incuriosiscono un uomo che sta urinando. Spia, vede, ma non capisce. Ed è questa la condizione nella quale O’Shea lascia lo spettatore per tutta la durata del film. Fedele al principio dell’indeterminazione todoroviana, non sapremo mai se Milo è o non è un vampiro. In compenso, con un affondo etico e documentario molto interessante, vediamo invece come vive e come si organizza le giornate.

Una vera scelta di campo. In confronto a lui, impegnatissimo a gestire la sua doppia esistenza, il fratello Lewis reduce dall’Iraq trascorre tutto il tempo sul sofà a guardare la televisione. L’arrivo nel project di Sophie (Chloe Levine, notevole), scoperta nel corso di una gang bang su un terrain vague in pieno giorno, trasfigura la routine di Milo, che si appunta con acribia notarile sul calendario gli omicidi che commette. Ed è proprio nella costruzione di un altro reale del presunto vampiro, la possibilità di un amore fra ragazzo afroamericano dei project e una ragazza bianca in fuga dal mondo, che il film riesce a riagganciarsi alla grande e mai dimenticata lezione dell’horror politico americano.

A ben vedere, The Transfiguration potrebbe essere letto anche come una variazione sul tema del Martin romeriano calato in una realtà urbana che invece a tratti sembra reinventare la desolazione e il degrado dei primi film di Lustig. Mentore occulto dell’operazione, Larry Fessenden che si ritaglia un cameo da ubriacone sgozzato da Milo. La relazione preda-predatore, già esplorata da O’Shea nel suo corto Milo, si articola in forme sempre imprevedibili e nel finale si apre a una efficace deriva melò, risolta in un montaggio parallelo che riesce a essere non banale, ricorrendo persino a uno strumento abusato come la voce off. The Transfiguration è un tentativo riuscito di realizzare un horror adulto, sintonizzato con le viscere più cupo del malessere statunitense, in grado di rilanciare, e complessificare, la figura del vampiro.