Partirei da una foto scattata dal suo ex marito in cui siete ritratte Lei, sua figlia, Niki e la madre. Sembrate molto serene. Eppure in My Love emerge il grande contrasto tra Niki e la madre, che l’artista apprezza per l’eleganza, l’amore per i profumi e gli specchi, ma che al contempo disprezza. Mi può parlare della relazione che c’era tra di voi?
Partire dallo specchio è interessante. Lo specchio è molto importante per Niki e l’eleganza è un valore effettivamente presente nella nostra particolare famiglia. Non ero molto legata alla nonna, perché ci separava un oceano, ma anche perché è stata una donna fredda e molto dura con mia madre, la picchiava, non la accettava, e il mondo in cui era inserita era ipocrita e vanitoso.
Ho letto che la mostra al Grand Palais le ha permesso di capire nuove cose su sua madre. Come si è relazionata con questa donna così forte e insieme vulnerabile nelle diverse tappe della vostra vita?
Fa bene a parlare di tappe. La prima fu l’infanzia; dopo la separazione da mio padre, mia madre iniziò a frequentare Tinguely, che all’epoca era molto violento. Per associazione di pensieri le dico che quando Niki entrò nella sua fase pubblica e creativa, è scattata in lei una forte violenza verso se stessa che mi ha molto ferita. Fu un periodo pieno di avventure, eccitazioni, ma anche molti drammi. Dai 10 ai 17 anni sono cresciuta con mio padre e mio fratello e mia madre mi è mancata molto. Poi, quando sono diventata madre anch’io le cose sono cambiate e siamo diventati molto più uniti anche con Tinguely. Lui e Niki erano degli artisti solitari e indipendenti, ma al contempo volontariamente rivolti al pubblico. Avevano una relazione solida, decisa a rompere le barriere. Mia nonna ha rappresentato il mondo della rottura, mentre tra Niki, me e mia figlia c’è continuità. Mia figlia era molto vicina a Niki, che le ha trasmesso il valore del lavoro e l’ha fatta diventata una sua fedele collaboratrice. Se in qualche periodo della nostra vita Niki ed io ci siamo allontanate, ci siamo davvero ritrovate gli ultimi mesi della sua vita. È stato come se la presenza della morte ci fosse stata accanto come accade nel film Camelia e il dragone, e come se mia madre mi avesse chiesto di portarla dall’altra parte della riva. Ho fatto pace con tutto il dolore del passato in maniera spontanea come se mi fossi trovata assieme a lei in uno stato di pre-nascita. Per quanto riguarda l’esposizione al Grand Palais è stato emozionante vedere la ricostruzione della figura di Niki attraverso alcune parti essenziali del suo lavoro e l’ampia documentazione video.
Parlando di cinema, prima di interpretare il ruolo della protagonista in «Camelia e il dragone» lei
ha interpretato il ruolo di Ginevra nel film di Bresson «Lancilloto del lago», che vent’anni prima era
stato proposto a sua madre. È stato un caso? Ne avete mai discusso?
In quel periodo ero un po’ chiusa e non parlavo molto, non ho discusso. Sapevo che Niki e Bresson si erano incontrati in passato, io amavo il cinema, ma ero prevenuta nei confronti di Bresson perché avevo sentito dire che aveva schiaffeggiato un’attrice! Quando mi sono presentata al provino non sapevo si trattasse di quel film. Quando l’ho scoperto ho adorato l’idea dell’armatura di ferro perché ne avevo sempre desiderata una! All’epoca avevo visto solo Pickpocket, che avevo apprezzato ma mi ero convinta dell’idea che il personaggio femminile, così poco reale, corrispondesse al ruolo dei personaggi femminili di Bresson in generale. Pensavo di aver capito tutto e siccome diffidavo di Bresson non abbiamo quasi mai parlato durante le riprese. Lui fu soddisfatto della mia interpretazione e disse che avevo lavorato quasi telepaticamente!
Poco tempo dopo c’è stata «Camelia e il dragone». Perché Niki ha scelto lei per questo ruolo: aveva apprezzato la sua interpretazione di Ginevra o voleva che fosse proprio sua figlia a interpretare Camelia?
Forse ha giocato un peso il fatto che avevo avuto un ruolo in un film intitolato Non si scrive sui muri a Milano e che quando ero a Cinecittà mia madre è arrivata il giorno in cui dovevo interpretare una scena di suicidio. Credo che questo l’abbia scioccata e che l’ episodio sia stato catalizzatore per il ruolo di Camelia, attraverso cui forse ha voluto darmi un’altra vita, nonostante anche questo film si conclude a fianco al personaggio della Morte.
Lei era consapevole del significato del film? Delle diverse stratificazioni al suo interno?
Sono curiosa di rivederlo; sono certa corrispondesse solo all’inizio dell’iniziazione. Camelia rifiuta varie vie ma alla fine del film non ha ancora trovato quello che cerca.
Mi può parlare di Whitehead che ha partecipato alla realizzazione del film e che è stato anche uno degli amante di vostra madre oltre che corealizzatore di «Daddy»?
Whitehead in Camelia se ne è andato presto. Non ricordavo bene l’episodio e il mio ex marito me lo ha ricordato. Non lo amavo molto. Sono incuriosita di rivedere Daddy. Credo che mi potrebbe ancora turbare. Nel mio ricordo tutto quello che Niki apporta mi piace, ma tutto quello che apporta lui non lo apprezzo affatto.
Si dice che lui abbia caricato il film anche dei propri fantasmi. Non è chiara la relazione tra Niki e suo padre, si tratta forse più in generale della lotta contro il mondo patriarcale e non necessariamente solo verso suo padre?
La verità ci ha messo un po’ ad uscire ma ora si sa. So cosa è successo tra Niki e il padre, ma reputo che Whitehead avesse uno sguardo malsano. Dopo il film, Niki ha cominciato un percorso terapeutico e nello stesso periodo ha sviluppato una forma di artrite reumatoide tipica dell’infanzia.
Nella mostra del Grand Palais soprattutto nelle serigrafie appare la voglia di parlare d’amore e gioia, nonostante la violenta denuncia di ciò che non va nella società.
Sì, dice bene. In effetti ho visto la trasmutazione dalla violenza alla creazione, all’inizio soprattutto nella collaborazione con Tinguely e poi anche con le persone con cui aveva lavorato.
Niki sembra essere cresciuta con la sua opera: in un primo momento un lavoro su se stessa e la famiglia, l’emancipazione personale, da questa, che poi diventa emancipazione dalla famiglia allargata della società dell’epoca. Mettere in scena dei personaggi, delle specie di burattini sui cui gettare tutta la rabbia per necessità di esistere. Ma dopo questa liberazione la vocazione sembra diventare più sociale: «se non posso cambiare la società posso farla vedere diversa» come nei progetti architettonici. Qual è stata la relazione che sua madre ha avuto con il mito e in particolare con la tragedia.

La vita stessa! Una rappresentazione dell’essenza, viene sublimata nel Giardino dei Tarocchi.
La musica: in «Camelia e il Dragone» vi è una ricerca sonora influenzata della musica concreta. Questa sensibilità che si è certamente sviluppata grazie a molte collaborazioni teatrali e musicali tra cui anche quella con Cage, è stata influenzata anche dal matrimonio con suo padre che fu scrittore e appassionato di musica? Come è stata la loro relazione?
Sì! Niki ne è stata molto influenzata. Era un grande erudita, amava molto la musica, la pittura e la letteratura, ed è certo che abbia aperto a Niki dei mondi che lei non conosceva. Era molto elegante e la sostenne anche dopo la separazione.
Ritornando ancora a Camelia: cosa le ha apportato essersi confrontata con un dragone? Ha mai riflettuto sui suoi significati iniziatici?
È una domanda geniale! Mi smuove delle cose profonde su cui devo riflettere. Grazie! C’era una scultura di un dragone che Niki aveva vicino al suo letto, che amavo tanto ma che poi lei diede a Pontus Hulten. Io ero molto rattristata e glielo dissi e lei mi chiese perché non le avevo detto che la volevo. Questo episodio mi è rimasto impresso.
Abbiamo parlato di Niki nel cinema, ma Niki è stata anche donna pioniera nella gestione capace della sua immagine pubblica attraverso i media, i video, le interviste, la pubblicità. Può parlarmi di questo e del ruolo che ha la Fondazione Niki Charitable Art Foundation nel preservare i diritti delle sue opere e della sua immagine pubblica?
Niki ha creato non solo la Fondazione, ma una équipe perfetta al suo interno, costituita da gente fedele e motivata, tra cui mia figlia. Fu una tale lavoratrice che ha saputo progettare come lavorare anche dopo la morte! Ha calcolato tutti i dettagli dall’ospedale e quando tutto fu disposto se n’è andata. L’équipe ha completato il lavoro. È stata un’ottima comunicatrice. Credo che il fatto di avere lavorato nel campo della moda come modella e aver mantenuto alcune di quelle relazioni le sia stato di aiuto.
Laura e Zanzibar?
Era il maggio del 68 in Francia. Ho fatto parte del cinema rivoluzionario con J. Rouche al Teatro dell’Odeon ed ho partecipato alle attività rivoluzionarie con Philippe Garrel e il seguito di Zanzibar. Era un periodo storico, fu l’inizio di nuove avventure, un’apertura sulla vita e sul mondo adulto.

 

(Nata a Trieste Paola Pisani si muove tra il campo della letteratura e quello delle arti in generale interessata da anni al ruolo del femminile nel mito. Grande ammiratrice di Niki de Saint-Phalle, in questa intervista, in completa armonia con il titolo del festival «Apparizione» inquadra attraverso una conversazione intima e familiare non solo Niki, ma la figlia Laura, attrice e protagonista del film in programma al Festival Camelia e il dragone. L’intervista si inserisce come continuazione del piccolo omaggio a Niki de Saint-Phalle che l’artista triestina ha elaborato appositamente per il Festiva dal titolo My Love, tratto dalla recente mostra al Grand Palais di Parigi e dal libro omonimo).