Non poteva esserci dirittura di campagna più emblematica del furioso crescendo di retorica e violenza che ha travolto l’America negli ultimi giorni prima delle elezioni. Mai è stata più frenetica la retorica, e mai è parso più chiaro il nesso fra l’esagitata demagogia trumpista e le azioni degli «sconsiderati» attivati dall’ossessivo, paranoico complottismo, e l’odio normalizzato, sdoganato come norma politica. Tutto in conto nel cinico calcolo del presidente per giungere alle urne con paura e disgusto sufficienti contrastare una blue wave o almeno una «rimontina» democratica alle elezioni di medio termine.

TRADIZIONALMENTE le consultazioni di midterm tendono a registrare un’avanzata del partito opposto a quello del presidente in carica: è accaduto in 18 delle ultime 20 elezioni, (nelle quali l’opposizione si è ripresa in media 33 parlamentari). Sarebbe tanto più lecito quest’anno, prevedere una reazione proporzionale al livello di polemica iniettato nel paese da Trump. È comunque tassativo per i democratici – se vogliono avere una speranza di rompere l’assoluto monopolio repubblicano su presidenza, legislatura e potere giudiziario – ridare voce parziale a quella America che due anni fa ha dato tre milioni in più all’avversaria del presidente.

PER RIPRENDERE IL CONTROLLO almeno della camera i democratici hanno bisogno di guadagnare 24 seggi, una prospettiva possibile, dato che 48 gare sono considerate «aperte» e 25 deputati repubblicani si trovano a correre in distretti che alle presidenziali hanno favorito Hillary Clinton. Detto questo molte gare sono entro il margine statistico e rimangono possibili sia un plebiscito democratico che una tenuta repubblicana. Dopo la figuraccia rimediata due anni fa nessun sondaggista se la sente di sbilanciarsi oltre a rilevare la spaccatura ormai assodata: anziani, maschi e bianchi per Trump; minoranze donne e giovani all’opposizione.

PER I DEMOCRATICI la strada rimane in salita per via delle barriere istituzionali che favoriscono fisiologicamente il consolidato potere repubblicano.
Nel sistema maggioritario secco è possibile infatti gestire le circoscrizioni elettorali di modo da pilotare l’esito. Gerrymandering, è il termine che designa le acrobazie amministrative per ottenere distretti uninominali favorevoli, un’operazione controllata dalle giurisdizioni locali dei singoli stati. E il Gop, pur rappresentando meno cittadini in assoluto, controlla 34 governi statali. In 26 di essi i repubblicani detengono il monopolio di governatore ed entrambe le camere. Un’egemonia amministrativa cruciale nell’assicurare una favorevole suddivisione elettorale. Tarando il sistema è possibile neutralizzare in parte le super maggioranze democratiche nelle grandi città e vanificare i grandi numeri geograficamente concentrati.

Non a caso, un disegno politico fondamentale del Gop prevede di ripristinare limiti al suffragio per controbilanciare il trend demografico che espone il partito repubblicano e l’America bianca al pericolo di una minoranza permanente. L’obiettivo è perseguito e con l’ostruzione al voto (ufficialmente motivata con la lotta a immaginari brogli). Negli ultimi anni, specie in vari stati del sud, sono state adottate una serie di misure volte limitare l’accesso alle urne delle minoranze: il proseguimento, in sostanza, delle politiche segregazioniste rimediate dal voting rights act nel 1964. Quella legge, conquistata dal movimento di Martin Luther King è stata indebolita dalla corte suprema ed è specificamente nel mirino del ministro di giustizia Jeff Sessions.

LA NARRAZIONE MILITARIZZATA da Trump, quella del complotto democratico per annacquare il voto legittimo dei cittadini importando clandestini, attecchisce fin troppo bene, ed è sconfinata nella violenza a Charlottesville e Pittsburgh. Il disegno eugenetico trumpista per ripristinare un favorevole equilibrio razziale si completa con la proposta abrogazione dello «ius soli» scagliata come una molotov sulla campagna elettorale. I democratici sperano invece di riattivare proprio le componenti di quella che fu la Obama coalition.

MARTEDÌ SI DOVRÀ VERIFICARE se le donne bianche che nel 2016 votarono Trump al 52%, dopo due anni di The Donald, di #MeToo e dopo la contestata nomina del giudice Kavanaugh, avranno cambiato idea cambiando quella percentuale. Essenziale è poi mobilitare i millennials.

I ragazzi della «generazione Parkland» hanno già dimostrato di saper dar vita un movimento nazionale come quello contro le armi da fuoco. Organizzazioni come «Power California» vogliono ora assicurarsi che la nuova consapevolezza politica abbia un seguito nelle urne di voto.

[do action=”citazione”]«Qui in California», ci spiega Luis Sanchez, «il 70% dei ragazzi sotto i 25 anni sono non bianchi. Potrebbero costituire un terzo dell’elettorato e ora, sotto Trump, hanno un’idea ben chiara delle conseguenze che la politica può avere sulle loro vite. C’è un’energia che non si sentiva dalle lotte per i diritti civili, la consapevolezza che con le prossime due elezioni si giocano il futuro».[/do]

Accomunati dalla cultura digitale e multietnica i ragazzi che sia affacceranno al voto per la prima volta vivono in un mondo in cui integrazione di razza e gender sono dati già acquisiti e sono inoltre fortemente attivati su un fronte ambientale sempre più vicino all’emergenza.

È IL VOLTO DI UNA POSSIBILE America post-trumpista, se riuscirà ad emergere. Per il momento si tratta di superare l’endemico assenteismo che tradizionalmente li caratterizza specie in anni non presidenziali (quando di solito votano molto meno della metà degli aventi diritto). Da quest’estate «Power California» ha iscritto alle liste di voto 50.000 nuovi elettori, e la maggiore affluenza favorisce i democratici. Per arrestare la marea populista occorrerà poi riuscire a comunicare nei distretti rurali e lontani dalle grandi città, fare progressi insomma nelle roccaforti trumpiste degli hinterland. E non solo negli stati dell’America più profonda. Anche nella democraticissima California ad esempio vi sono una mezza dozzina di distretti che potrebbero rivelarsi cruciali alla riconquista della camera.

SI TRATTA DI CIRCOSCRIZIONI per lo più rurali, in particolare nel paniere agricolo della Central Valley dominata da forti interessi agroindustriali. La popolazione della regione – 500 polverosi chilometri fra Bakersfield, Fresno e Sacramento – è prevalentemente ispanica ma la struttura politicamente è da sempre repubblicana (personaggi come Devin Nunes, presidente della commissione intelligence e fedelissimo di Trump, qui sono la norma).

Nella regione storica delle lotte sindacali campesine di Cesar Chavez, oggi associazioni come «99 Rootz» lavorano per mobilitare giovani latinos che potrebbero «ribaltare» almeno tre seggi trumpisti. Ed è per questo che Crissy Alavarez, 18 anni, da quattro settimane, dopo scuola, lavora ai telefoni nel piccolo ufficio nella località di Atwater, per convincere i compagni ad andare a votare. In molte città per martedì sono previsti walk-out – scioperi degli studenti delle secondarie per permettere ai maggiorenni di recarsi ai seggi – «I ragazzi sono la voce delle famiglie immigrate, in cui i genitori spesso non possono votare» dice Sanchez, veterano delle lotte chicane degli anni 90 a Los Angeles e Berkeley, «Cerchiamo di ricollegarli alla tradizione di lotte politiche».

Si tratta di un opera di ricostruzione capillare e necessaria se il partito democratico vorrà sperare di costruire una cultura politica capace di contrastare la strumentalizzazione ed il degrado trumpista.

MOLTI DEI RAGAZZI che lavorano con «99 Rootz» fanno parte degli 800mila Dreamers i giovani «illegali» amnistiati da Obama che ora in regime Trump, si trovano passibili di deportazione. Questo midterm – inoltre – può essere inquadrato come scontro fra forze suprematiste e multiculturali.

Per mantenere il potere Trump persegue ormai una pericolosa strategia della terra bruciata che mira ad alzare quotidianamente lo scontro e «militarizzare» le pulsioni più retrograde del paese dando forma simbolica alle paure bianche. Mobilitando – ad esempio – le truppe militari per uno scontro immaginario con i diseredati in marcia dal Centro America destinato ad avere luogo solo nei febbrili immaginari dei suoi seguaci.

LA PSICOSI IMMIGRAZIONE tatticamente riattivata costituisce una manovra diversiva di Trump, una distrazione da disuguaglianza, globalizzazione, clima, tecnologia – i temi della governance post moderna così catastroficamente ignorati dalla pulsione retrograda del nazionalpopulismo (nonché da una sinistra anche qui in una crisi di identità.) Per tutte queste ragioni le elezioni saranno un appuntamento cruciale che molto dirà sulle prospettive future del paese e del mondo.