L’editore Luca Sossella è noto per la qualità superba dei libri che confeziona, e talora anche per la monumentalità. A esempio, nel 2005, diede alle stampe l’antologia Parola Plurale, curata da un team di critici e studiosi e dedicata alla voce di «sessantaquattro poeti italiani fra i due secoli», ovvero dei nostri tempi, 1180 pagine di versi e biografie. Ora è il caso di un’altra antologia extra-large, approdata nelle librerie da poche settimane, La poesia degli alberi, a cura da Mino Petazzini, direttore del centro di formazione ambientale di Villa Ghigi a Bologna, mille pagine immolate ad una forma di poesia ultimamente tornata di moda ma che, lo vedremo, in verità ha avuto seguaci e cultori in ogni tempo e nelle diverse lingue e culture: si tratta in sostanza di un viaggio in oltre duemila anni di poesia mondiale, dalle opere antiche dei greci, dei romani e dei persiani al panorama attuale della poesia italiana e internazionale.

Soltanto dieci anni fa proporre ai maggiori editori italiani un libro a tema alberi era tempo perso, l’unico che era riuscito a farlo passare è stato Mario Rigoni Stern, il suo Arboreto salvatico (1991) che in verità inizialmente non aveva mancato di sollevare sopraccigli in casa Einaudi, ma la qualità della scrittura, l’importanza della figura e la dimensione tuttavia ridotta della pubblicazione lo fecero diventare quel long-seller che è. «Argomento da nicchia», rispondevano editor e direttori editoriali. Oggi, una manciata di stagioni dopo, al contrario è arduo incrociare case editrici, grandi, medie, piccole, che si rivolgano a lettori massificati o indipendenti, che non abbiano pubblicato uno o più volumi dedicato agli alberi, ad alberi monumentali, o a giardini, boschi, piante, fiori. E anche fra le antologie e le nuove raccolte poetiche l’argomento oramai si è imposto quasi come certi classici della musica che l’artista emergente o emerso deve interpretare a proprio modo. L’idea di La poesia degli alberi è sbocciata, ce lo confessa il curatore nell’introduzione, un anno fa in trattoria, a Bologna, e in effetti sarebbe interessante provare a cucire insieme un saggio dedicato a quante opere letterarie e artistiche siano state partorite con le ginocchia sotto una tavola.

Nella fiumana di poeti abbracciati ne La poesia degli alberi figurano classici in lingua greca e latina – Apollonio Rodio, Callimaco, Saffo, Omero, Esopo, Catullo, Marziale, Orazio, Ovidio, Virgilio. La truppa più nutrita è ovviamente quella in lingua italiana, otto secoli di tradizione volgare, da Dante Alighieri a Ludovico Ariosto, da Giambattista Marino a Vincenzo Monti, da Luigi Pirandello ad Ada Negri, da Guido Gozzano a Vittorio Sereni. Affollatissima la schiera novecentesca e contemporanea, con decine di voci ben note e alcune più fresche, dai premi nobel ai poeti emersi in questi esordi di millennio, compresi i dialettali quali il compianto Franco Loi, scomparso da pochi giorni. La Francia viene rappresentata da 23 poeti, fra i quali Ponge, Prevert, Rimbaud, Bonnefoy e il belga naturalizzato francese Michaux. La Spagna da 12, il Portogallo purtroppo dal solo Fernando Pessoa, la Grecia da 3 – sciagura! – la Svizzera da 6, l’Austria da 4, la Germania da 23, i Paesi Bassi da 3, il Regno Unito da 36, l’Irlanda da 4 – sciagura seconda. Quindi 6 poeti per la Polonia, 11 per la Russia, 9 per la Cina, 37 per il Giappone, 3 per l’Argentina, 2 per il Messico, 3 per il Canada, 2 per la Romania, 50 per gli Stati Uniti – ma manca una delle più celebri poesie arboree, studiata a memoria nelle scuole lementari, Trees di Joyce Kilmer, morto al fronte durante la Prima guerra mondiale. Eccetera, eccetera.

In questa selva tropicale di versi potremmo tendere l’orecchio per ascoltare diverse poesie magistrali. Ad esempio potremmo accovacciarci sull’opera del siciliano Ignazio Buttitta (1899-1997), Oh terra mia d’aranci, nella quale si descrive l’infelice migrazione interna dei decenni che furono, quando i siciliani, come altri italiani figli di un’economia minore, salpavano sui treni «senza sole» alla volta delle città industriali delle regioni settentrionali. La versione in italiano è una traduzione dell’originale in dialetto bagherese: «Oh terra mia d’aranci! / Otto giorni di festa / e ora se ne vanno / perché non è più Natale / e nemmeno è Capodanno. / Ritornano nella neve / dove c’è nebbia e scuro, / e c’è un padrone straniero / e il lavoro è duro. / Dove sono chiamati / per offesa terroni / e dicono che noi siciliani / non siamo gente buona. / E partono con il sole / su un treno senza sole / col cuore che gli fa male / e un groppo nella gola».

Un’altra poesia che mi ha colpito è di matrice europea, tedesca, si intitola L’escursione ed è stata composta da Rainer Kirsch (1934-2015), studente di filosofia, tipografo, agricoltore ma anche presidente dell’associazione degli scrittori della Germania orientale, nonché poeta, drammaturgo, traduttore, saggista e marito della poetessa Sarah Kirsch. La sua poesia è ambientata nella campagna tedesca, che ci appare così tranquilla, desiderabile, turistica, ma dietro le foglie, i sentieri e i boschi c’è un fumo e un vento che nascondono le grandi tragedie compiute in guerra, c’è un ammonimento a non dimenticare l’orrore che ora le erbe stanno ricoprendo; poiché la natura che noi oggi possiamo ammirare è stata anche frontiera, ha visto quel che l’uomo è capace di compiere. E certi campi un tempo non erano campi a perdita d’occhio, erano baracche, filo spinato, violenza, morte. La poesia è tratta dall’antologia einaudiana Giovani poeti tedeschi, curata nel 1969 da Roberto Fertonani, qui ritoccata in un paio di versi dal Petazzini: «Bene, dove si va? / Nel bosco di querce, nel bosco di querce, / il cuculo grigio lì chiamerà tra breve Bene, dove si va? / Nel bosco di faggi, nel bosco di faggi, / lì fischia il vento a fredde raffiche, / lì l’aria ha un sapore così strano e dolce, / lì c’è un odore di paradiso così forte, / lì si può vedere il fumo nero, / lì fischia il vento, il fumo resta fermo, / lì da diciassette anni il vento spira, / lì senza sosta il fumo grida».

Infine tentiamo di puntare a qualche verso americano, nell’ampio arboreto boreale si va da Edgar Lee Master e Walt Whitman ad E. E, Cummings e William Carlos Williams, da Gary Snyder e Charles Olson ad Anne Sexton e Raymond Carver. Mi stupisce la presenza di Julia Butterfly Hill, nota per aver dimorato sulla sequoia Luna per due anni, evitando che venisse abbattuta. La sua (quasi) poesia si trova a pagina 922 e s’intitola proprio Luna: «Mi annido tra le sue braccia / Ascolto tutto quello che ha da dire / Mi parla attraverso i miei piedi nudi, / Le mie mani / Mi parla nel vento / Nella pioggia / Mi racconta storie nate molto prima di me».