Un ceto medio più fragile, più poveri e salari più bassi, percezione di una maggiore instabilità del lavoro, sensazione che sia sempre più difficile migliorare le proprie condizioni. Conseguenze: maggiore pessimismo sul futuro, e crescente sfiducia economica.

Questa la sintesi del nuovo «Rapporto sulla qualità dello sviluppo in Italia», realizzato da Tecnè e dalla Fondazione Di Vittorio.

Non si tratta naturalmente di valutazioni politiche o socio-psicologiche sugli italiani, ma di giudizi che scaturiscono da una serie di numeri precisi: quelli che pensano che la situazione economica dell’Italia migliorerà erano nel 2015 il 44%, sono adesso il 31% e se si passa alla situazione personale quelli che sperano in un miglioramento sono appena l’11%.

Non va meglio sul fronte del lavoro: solo il 24% pensa che l’occupazione crescerà (era il 31% nel 2015).

Se poi si scende a livello territoriale il nord resta l’area del Paese dove il livello di disuguaglianza economica è inferiore, mentre nel mezzogiorno, sia per quanto riguarda la distribuzione dei redditi che per quanto riguarda la concentrazione della ricchezza, il livello di iniquità sale moltissimo.

Con queste dinamiche non c’è da meravigliarsi se si registra un ripiegamento nel privato e un indebolimento della propensione sociale partecipativa. Semmai ci sarà da riflettere meglio sul fatto che, contemporaneamente, la soddisfazione personale e la fiducia interpersonale sono in leggero aumento. Tendiamo ad accontentarci di quello che abbiamo o contiamo di più sulle reti amicali e familiari?

Se i fenomeni permarranno potrà essere in futuro un campo da esplorare. Per il momento resta la drammaticità delle disuguaglianze territoriali che crescono e si affiancano a quelle sociali e generazionali (inutile citare ancora i livelli di disoccupazione giovanile).

Niente di nuovo si potrebbe dire se non la conferma che i problemi strutturali che caratterizzano la nostra economia e la nostra società sono enormi e che non basta evocare la crisi per giustificarli. Resta, infatti, un interrogativo: come mai pur avendo l’Italia goduto degli stessi fattori positivi di cui ha goduto tutta l’Europa (svalutazione dell’euro, calo del prezzo petrolio, liquidità Bce), noi cresciamo di meno e continuiamo ad essere fanalino di coda? E come mai non avendo fatto particolari investimenti per il lavoro e la ripresa continuiamo ad essere nel mirino di Bruxelles per i deficit di bilancio? Forse una risposta sta negli stessi comportamenti di questi giorni da parte di chi ci ha governato. Nei mille giorni di Renzi il massimo di visione temporale che ha ispirato le sue scelte è stato: i prossimi mesi, la prossima scadenza elettorale.

Non dico che problemi strutturali come quelli che abbiamo si sarebbero potuti affrontare facendo miracoli, ma certamente se si fossero utilizzate le stesse risorse impegnate in bonus, sconti ai ricchi proprietari di case, incentivi non finalizzati a nuove assunzioni certe per vere misure strutturali e di sostegno ai redditi più bassi avremmo ottenuto risultati più dignitosi.

Invece la lezione non è servita a niente. Ed anche adesso si continua a giocare a poker e si spinge il governo a resistere all’Europa guardando ai problemi interni del Pd ed al bisogno irrefrenabile di Renzi di spingere ad elezioni ravvicinate per non restare più a lungo in panchina.

Insomma più i problemi sono grandi e strutturali, più, sembra, siamo attratti dal piccolo cabotaggio. Cambiare manovratori e direzione di marcia è sempre più urgente ed indispensabile. Ma richiede che anche la politica ed anche quella della sinistra non restino inchiodate alle questioni di palazzo e di alleanze per sopravvivenza. Sarebbe anche questo piccolo cabotaggio.