Se il vicepresidente del senato, Roberto Calderoli, avesse la stessa finezza di spirito dei nomadi del Sudan, capaci di cogliere la morale nascosta nel racconto titolato «La girda», che si trova in Collezione Atlantide. Decamerone nero di Leo Frobenius (Aragno, nella classica traduzione di Francesco Saba Sardi apparsa nell’ormai lontano 1971, pp. XVII-368, euro 20,00) questa lettura potrebbe essergli utile. Vi si racconta, tra l’altro, la storia di una scimmia parlante che, accolta in casa con qualche ovvia perplessità ma senza ostilità preconcette, si rivela alla fine celare, sotto la pelle del primate, una donna bellissima, dai «lunghi capelli, morbidi come seta, intesti di fili d’oro», e, quel che più conta, estremamente assennata. Del resto, la ricerca dell’assennatezza in tutte le sue forme, dalla saggezza necessaria al giudice per rendere giustizia alla sbrigativa scaltrezza di chi deve arrangiarsi nella vita di tutti i giorni, è una presenza costante nella maggior parte dei cinquantacinque racconti del Decamerone nero.
L’antropologia è di moda, oggi la si insegna persino nella scuola primaria, ma gli scritti propriamente antropologici tendono a rimanere limitati a pochi specialisti. Per questo non è raro che i tentativi di divulgazione ricorrano a espedienti di mimetismo culturale, per cercare di solleticare l’immaginario dei potenziali lettori. È così che, quando Leo Frobenius inaugurò una grande raccolta di fiabe africane (12 volumi pubblicati tra il 1921 e il 1928), si rifece, per il nome della collezione, a un mito in gran voga ai suoi tempi e consacrato da un romanzo di grande successo uscito proprio in quegli anni, l’Atlantide di Pierre Benoit (del 1919), ambientato nel Sahara e ricco di suggestioni fiabesche e mitologiche, come la assimilazione della regina Antinea a Tin Hinan, progenitrice dei tuareg dell’Ahaggar. E quando, mezzo secolo dopo, l’editore Diederichs decise di pubblicare un’antologia di questa sterminata raccolta, la intitolò Decamerone nero, riprendendo sì una denominazione già usata da Frobenius in un altro dei suoi scritti, ma col chiaro intento di far leva sul côté «boccaccesco» di molti di questi testi, nel solco dello Zeitgeist sessantottino, che della liberazione sessuale aveva fatto uno dei propri capisaldi (in Italia usciva in quegli anni il Decameron di Pasolini, cui fece seguito tutta una serie di sottoprodotti cinematografici noti appunto come «decamerotici»). Addirittura, la versione inglese venne intitolata African nights: Black erotic folk tales, con esplicita allusione questa volta all’esotica sensualità delle Arabian nights, le nostre «Mille e una notte».

Il prolifico etno-antropologo tedesco Leo Frobenius – nato nel 1873 e morto nel 1938 – è noto per l’ingente quantità di racconti che raccolse in varie parti dell’Africa nella prima metà del secolo testé trascorso; e, anche se oggi l’antropologia è ben diversa da quella, ancora pionieristica, dei suoi tempi, la sua «C«llezione Atlantide» costituisce tuttora una miniera di informazioni per linguisti, etnologi e antropologi. Un’antologia che permetta di accostarsi almeno a una parte di questi materiali, offre una rara opportunità di gettare uno sguardo diretto sull’immaginario di culture «altre», non mediato da adattamenti o interpretazioni esterne.

Se si considera la raccolta da un punto di vista strettamente scientifico, balzano all’occhio due inconvenienti maggiori: la soggettività delle scelte e la mancanza di un commento antropologico; ma per il lettore non specialista cui questo libro si rivolge si tratta di problemi di poco conto. La scelta dei racconti è stata fatta in modo dichiaratamente soggettivo. Ulf Diederichs, compilatore della raccolta, afferma di avere «estratto quelli che a nostro giudizio sono i più tipici esempi del modo di narrare africano», dove l’uso del termine «africano» in senso globale e indifferenziato è tipico di una visione sostanzialmente etnocentrica, che oblitera qualunque diversità interna a un mondo percepito globalmente come «altro». Basti pensare a quanto sarebbe assurdo pretendere di raccogliere un’antologia dei «più tipici esempi del modo di narrare europeo». Tuttavia, quand’anche i testi fossero stati scelti a casaccio, il loro numero complessivo e la varietà dei luoghi di provenienza sono più che sufficienti per dare al lettore una prima idea, per quanto parziale, dell’immenso patrimonio di racconti dei popoli africani, prescindendo dalla loro maggiore o minore «tipicità». È questo, in fondo, lo scopo di un’antologia.
Accanto ai racconti dei Cabili (berberi mediterranei, che Frobenius considerava al primo posto in Africa nel «fabulieren») troviamo così anche quelli di tanti popoli del Sahel e dell’Africa occidentale; gli eroi delle epopee cantate dai bardi dell’alto corso del Niger (una «Mesopotamia africana» secondo l’autore) accanto a Djeha (il sempliciotto-furbo corrispondente al siciliano Giufà) e alle sue storielle; e ancora: miti delle origini, storie di magie, di streghe e esseri fantastici, ma anche narrazioni ambientate nel quadro semplice della vita di tutti i giorni. In ogni volume della collezione Atlantide i testi dei racconti erano preceduti da un’introduzione mirata a descrivere l’universo culturale in cui erano stati prodotti, e l’assenza di queste informazioni impedisce di cogliere appieno il senso profondo delle narrazioni – anche se il «glossario» dell’edizione italiana, molto più esteso di quello originale tedesco, contiene già molte informazioni utili perlomeno alla comprensione letterale dei contenuti. La lettura è comunque perfettamente godibile anche a un semplice livello di superficie, come lettura di svago, tenendo presente che l’intento di intrattenimento era comunque presente, in maggiore o minor misura, un po’ in tutti questi testi. In molti casi è difficile distinguere tra lo «spirito» di una barzelletta e la morale di un racconto faceto.

Oltretutto, anche facendo a meno di dotte spiegazioni, i racconti veicolano già di per sé – e permettono di coglierli a chi li sa discernere – i valori delle società in cui circolano: le virtù che vengono esaltate («Buge Korroba è il più valoroso perché ha riportato fin l’ultima mucca e in più alcuni cavalli dei ladroni. E tutto questo l’ha fatto da solo»), i comportamenti che procurano vergogna («le parole di costui gli sono uscite di bocca senza che chi le pronunciava esercitasse il debito controllo… Lo zio ne provò vergogna»), ciò che viene considerato offensivo («non inviare un’ambasciata simile, essa è contro tutte le usanze»), quello che è giusto o ingiusto («o agellid, ti prego di dirimere una controversia sorta tra due amici…»), e via discorrendo.
L’assenza di informazioni esterne sul contesto socioculturale dei singoli racconti viene in certo qual modo sfruttata e esaltata dalla traduzione, che pone esplicitamente il racconto su un piano meramente fiabesco fuori dal tempo e dallo spazio reale con l’adozione di un linguaggio fortemente arcaizzante-toscaneggiante. Il lettore che ami le chicche linguistiche ne troverà a piacimento: in guisa tale, congiacersi, dar la baia, tracollare, fucinare, spiccar messaggeri, notti illumi, more di pietre, capelli intesti di fili d’oro. Anche questo linguaggio aiuta a sognare. Il libro è una dimostrazione di quanto l’antropologia possa non essere noiosa: lo si potrebbe tranquillamente consigliare come insolita lettura da ombrellone, per momenti di svago un po’esotico e condito di un pizzico di erotismo, mai stonato anche nelle manifestazioni più esplicite, per la semplicità disarmante con cui viene inserito nei racconti, nei quali comunque in definitiva più che le performance amatorie sono altri i valori che contano. Non si può che concordare con quel capovillaggio che, al termine di un racconto caratterizzato da una particolare insistenza sulle prestazioni sessuali dei protagonisti, concludeva: «Non è bene che uno si cerchi il genero in base alla robustezza del pene e pretenda che faccia cadere con la verga frutti dalla palma! La propria figlia, bisognerebbe darla a chi l’ama».