A più di un anno dallo stop agli spettacoli il ritorno all’attività al 100% pare lontano. Le promesse del governo di allargare le capienze e alleggerire le misure sul covid restano appese all’andamento della pandemia e alla campagna vaccinale. La possibilità, ad ora, di aprire solo in zona gialla non dà la possibilità di programmare nel breve lungo periodo, tanto che molte location estive non apriranno nemmeno in questo 2021. Il pnrr, di fatto, stanzia poco per la cultura e quel poco è condizionato in maniera molto forte e di musica non si trova nemmeno l’accenno nel testo. Intanto locali hanno chiuso per sempre, lavoratori e lavoratrici hanno cambiato mestiere, e alcuni piccoli proprietari di service si sono uccisi. L’incertezza sul futuro non ha messo in discussione ciò che già prima del 2020 rendeva al limite della sostenibilità l’organizzazione di un evento musicale. Ad oggi le limitazioni e disposizioni anti-covid rendono fattibili e realizzabili, economicamente parlando, solo eventi legati a sponsorizzazioni e fondi pubblici. Già la scorsa estate abbiamo visto, tra i pochi concerti fatti, aumentare i biglietti a parità di artista rispetto alle esibizioni invernali, nonostante, spesso, gli artisti abbiano “asciugato” le loro produzioni.

DAL 2015 abbiamo visto una progressiva crescita del costo degli eventi musicali, quasi sempre legato all’aumento dei cachet degli artisti, e contemporaneamente i margini di guadagno per gli organizzatori abbassarsi, con inevitabili ricadute sul lavoro. La crescita dei cachet si è accompagnata a costose e disordinate macchine live. Se all’inizio del 2000 molti gruppi giravano con staff e materiale tecnico, definito “produzione completa”, capace di alleviare il promoter di alcune spese fisse, ora gli artisti girano con importanti numeri di staff e materiale, per lo più scenografico, ma che non abbassa i costi. Si è entrati in una dinamica di mercato ove gli artisti vengono garantiti, per lo più dalle grandi agenzie, con importanti somme di denaro, in forma di anticipi sui tour, limitando le possibilità degli stessi di decidere dove e per chi suonare. Per accaparrarsi gli artisti ci sono vere e proprie aste al rialzo. Insomma artisti ed entourage, si garantiscono una sorta di tranquillità economica abdicando alla libertà. Diventano una sorta di oggetto nelle mani della complessa filiera della musica che vede all’apice, oggi, le società di prevendita. In questo contesto che non solo non è mutato ma è anche continuato con ferocia nel silenzio della pausa è difficile pensare che le rivendicazioni dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, che con forza si sono declinate in quest’anno, possano trovare una realizzazione.

TROPPO BASSI i margini di guadagno, sia nei grandi eventi che nei piccoli locali, per pensare che si allarghino le “squadre” di produzione, si combatta il nero, o si mutino le condizioni di assunzione,a partire dal costo orario del lavoro più stremante: il facchinaggio. Certo è che il riconoscimento del settore, delle sue peculiarità come la discontinuità, e la necessità di una riforma del welfare, come il reddito di continuità, sono sganciati e devono proseguire, con urgenza, anche senza la revisione di un sistema che incancrenitosi su competizione e speculazione rappresenta una delle avanguardie nello sfruttamento e stress del diritto del lavoro. Chi più di tutti può dare un segnale di cambio sono gli artisti e le artiste che dopo quest’anno non possono più accettare che un loro live, con biglietti a decine di euro, si regga su sfruttamento e persone pagate pochi euro l’ora.