L’ascolto del secondo album di Massimo Garritano si dischiude tutto nel respiro che accompagna il chitarrista nel passaggio da Haiku #7, primo frammento sonoro e prologo del nuovo album, a Magara, vero primo brano della poco più di una dozzina di canzoni senza testo che compongono l’ossatura tradizionale del disco. Dunque, un progetto, tra vinile e digitale ballano tre brani, tredici contro sedici, che secondo gli intendimenti del suo autore e vale la pena leggere la riproduzione manoscritta contenuta nel booklet, rappresenta l’approdo politico, appassionato di una ricerca indirizzata ad una militanza civile rivolta ad una possibile integrazione di stili musicali con quella ancora da raccogliere sociale. La metafora risulta talmente potente da far esplodere qualsiasi tentativo di ricostruire le trame sonore delle canzoni. Ognuna di esse, infatti, si compone di tre elementi: titoli (quasi una drammaturgia sentimentale delle fascinazioni culturali del musicista, John Fahey spiega tutto), tipi di strumento (chitarra acustica, «preparata», Bouzouki, classica freetless), stili che nella ricerca di Garritano sono sciolti da lacci storici per farsi dialogo contemporaneo, critico e poetico.