Alla crisi politica architettata dal premier Netanyahu dopo solo due anni di legislatura, un’altra tegola si abbatte su Tel Aviv: il più grave disastro ambientale dalla nascita dello Stato di Israele. Ieri due milioni e 300mila litri di greggio sono fuoriusciti da una conduttura a sud del paese, vicino Eilat, a 500 metri di distanza dal confine con la Giordania e il Mar Rosso.

L’incidente è stato causato dal crollo della struttura durante i lavori di manutenzione delle tubature e quelli di costruzione del nuovo aeroporto internazionale di Timna, fa sapere il Ministero della Protezione Ambientale. La conduttura, lunga 246 km, era stata costruita negli anni ’60 per collegare il porto di Ashkelon al Mediterraneo e rifornire l’Europa del gas iraniano. Con la rivoluzione khomeinista a Teheran, è stata usata per spostare greggio all’interno del paese.

«Il greggio ha invaso un’area di 8 km nella regione di Beer Ora a Eilat – ha detto Guy Samet, responsabile provinciale del Ministero – Parliamo di tre milioni di litri di greggio», finiti in una riserva naturale, Evrona, e nei fiumi dell’area e che minacciano l’ecosistema, il deserto come il vicino Mar Rosso. Gravi le conseguenze per la flora e la fauna della zona, nota per la presenza di gazzelle e per la rara palma dum. Tel Aviv tenta di rassicurare: la frontiera con la Giordania non è in pericolo, seppure Amman abbia riportato di 80 persone ricoverare per aver inalato gas tossici.

«Ci vorranno anni di pulizia e riabilitazione – ha aggiunto Samet – Possiamo chiamarlo disastro ambientale che sta causando enormi danni». Danni a cui si aggiungono tre feriti dopo l’inalazione di fumi e 7,6 milioni di dollari di danni, secondo i calcoli della Compagnia Israeliana per i Servizi Ambientali.

Mentre le autorità tentano di definire cause e responsabilità e comprendere la portata della contaminazione, a Tel Aviv i vertici politici dovrebbero inserire l’incidente nel più vasto contesto dello sfruttamento ambientale della Palestina storica dal 1948 ad oggi. «Far fiorire il deserto» è da anni uno degli slogan trainanti la propaganda israeliana. Uno slogan solo in parte realizzato e costato caro. Le politiche israeliane di gestione delle risorse, usate a scapito della popolazione palestinese nei Territori Occupati, si sono tradotte nell’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche e il loro trasferimento in zone desertiche. Ciò ha provocato da una parte la desertificazione di aree prima verdi e oggi non più produttive – come le comunità della Valle del Giordano rimaste in mano palestinese – e dall’altra la distruzione irreversibile di ecosistemi unici come il fiume Giordano e il Mar Morto.

Il tutto volto a colorare di verde il deserto a sud di Israele e le terre occupate dalle colonie. La deviazione del fiume Giordano, la sola fonte d’acqua di superficie in Palestina – Israele si appropria di 420 milioni di metri cubi d’acqua su 475 – ha provocato il prosciugamento del lago Hula e farà scomparire in futuro il lago di Tiberiade. A ciò si aggiunge il nuovo progetto “Red Sea”, nato da un accordo tra Israele, Giordania e Autorità Palestinese e finanziato dalla Banca Mondiale, volto a trasferire 200 milioni di metri cubi d’acqua all’anno del Mar Rosso nel Mar Morto, così da farlo tornare ai livelli precedenti. E contemporaneamente a distruggere un sito unico al mondo trasformando forzatamente la geografia della regione.

Ma la propaganda non è stata l’unica stella polare delle politiche ambientali e energetiche israeliane. Da tempo gas e greggio sono diventati il più efficace degli strumenti di gestione del conflitto mediorientale: stringendo accordi economici ed energetici con i vicini arabi, Israele si garantisce le alleanze necessarie alla propria stabilità. Mezzo primario è il bacino Leviatano, su cui stanno infilando le mani sia Turchia che Giordania: un giacimento da 538 miliardi di metri cubi di gas naturale che Israele intende sfruttare per vendere in Europa 16 miliardi di metri cubi l’anno. Passando per la Turchia: con Ankara, Tel Aviv ha già stipulato un accordo per la costruzione di un gasdotto lungo 470 km.

Contratto firmato anche con Amman, seppure non ufficialmente: con una lettera d’intenti dello scorso settembre le compagnie energetiche Nobel Energy (statunitense) e Dekel Group (israeliana) hanno dato l’ok alla vendita di 45 milioni di metri cubi di gas alla Giordania in 15 anni, accordo per ora sospesa per le recenti tensioni intorno alla Moschea di Al-Aqsa.