Cinque anni sono già un tempo che non torna più, non c’è differenza tra il ricordo di un sogno e il ricordo di una realtà. Diecimila milanesi eccitati ballano alla stazione sulle note del dj Giuliano Pisapia, un arcobaleno ne delizia ottantamila in piazza Duomo. La sinistra prende Milano. Che sballo, titolava il manifesto. È successo. Dicono che sia cambiato il quadro politico, sono cambiati anche i milanesi. Soprattutto chi ci aveva creduto. Il rimpianto di quegli istanti penzola dal taschino di Beppe Sala, sono i calzini rossi usati da San Giuliano durante le elezioni del 2011. Mr. Expo ha dovuto comprarli per 550 euro all’asta dei memorabilia organizzata da quel pezzo di sinistra che lo sostiene (Sinistra X Milano).  Feticismo e superstizione per sorridere su una storia archiviata definitivamente. Forse è l’unica immagine di questa desolante campagna elettorale che resterà impressa nella memoria.

Ma non confondiamo la politica con la vita reale.

Milano, strano a dirsi, non è depressa. Anzi. Non si è mai piaciuta come in questo momento. I milanesi corrono sempre, adesso si guardano anche intorno. La città ha riacquistato coscienza della propria bellezza, e in qualche modo ne godono anche gli esclusi. Nuovi poveri, sfrattati, giovani precari costretti ad essere “creativi”. L’Expo, una gigantesca operazione di marketing, una montagna di soldi, alcuni interventi urbanistici anche discutibili ma popolari (la Darsena, piazza Gae Aulenti), centinaia di nuovi locali e turisti con il naso all’insù che scrutano l’imperscrutabile (un balcone con gli alberi, lo skyline). A crederci, non passa giornata senza un “evento”. Anche la finale della Champion’s. Questa sorta di buon umore, secondo gli adoratori della «rivoluzione arancione», sarebbe il risultato del buon governo della giunta Pisapia.

Questa lettura superficiale però non fa i conti con la realtà e rifiuta l’interpretazione di un sentimento diffuso tra gli elettori di sinistra, è una idea così debole che quasi non lascia appigli per confutarla. Milano, fortunatamente, è anche altro da chi è chiamato ad amministrarla. Di questi tempi un gruppo di assessori onesti passa per una squadra di marziani – «siamo la capitale morale» – ma in un paese normale l’onestà sarebbe il minimo sindacale. Tutti i milanesi felici che cinque anni fa ballavano in piazza, compresi i «vertici» di Sel che sostengono l’ex manager di Expo, in cuor loro sanno che è andata a finire diversamente. Lo sanno da anni. Per questo motivo la campagna elettorale quasi non esiste. Si dibatte, ci si punzecchia, si scoprono le periferie queste sconosciute, poi verso sera ci si dà ragione agli aperitivi frequentati dalla solita compagnia di giro, amici, parenti, giornalisti (cioè amici).

Platea piuttosto ristretta, «popolo» zero si sarebbe detto una volta. I milanesi sono annoiati, distratti. E dire che mai come in questi giorni servirebbero impegno e partecipazione perché alcuni sondaggi, per quel che valgono, dicono che Beppe Sala e Stefano Parisi si giocheranno la poltrona da sindaco quasi alla pari (54,1% a 45,9%, un margine poco rassicurante calcolando l’alta percentuale di indecisi e di elettori cinquestelle). Un pronostico incredibile fino a qualche settimana fa, la dimostrazione che la cosiddetta esperienza arancione ha cominciato a squagliarsi quando Pisapia ha annunciato il ritiro senza aver elaborato un’iniziativa per la successione. Nemmeno vale la pena ripercorrere la storia delle primarie fratricide al veleno, una farsa autogestita dal Pd che ha conosciuto il suo epilogo solo quando i contendenti hanno avuto la certezza che ci sarebbe stato un vincitore sicuro: Beppe Sala.

Un candidato rispettabile ma dal profilo inconciliabile con la sinistra milanese. Il centrodestra a Milano, prima dell’harakiri, era dato per morto e sepolto. Quel che resta della sinistra invece si è spaccato irrimediabilmente e l’orizzonte si profila piuttosto cupo (non stupisce che molti ex elettori si stiano rifugiando nell’universo pentastellato).
Due manager non scaldano i cuori. Ma la verità è che le coalizioni che li sostengono sono anche peggio, sono il problema per entrambi. Da una parte il Pd a trazione renziana, dall’altra la destra ricompattata per miracolo con venature fascio-leghiste. Beppe Sala e Stefano Parisi sono moderati per natura (non è un delitto), hanno un profilo professionale simile – tutti e due hanno lavorato con Letizia Moratti – e sono istintivamente votati a governare privilegiando il rapporto con soggetti privati. La mitica borghesia prenditrice milanese può dormire sonni tranquilli.

Potrebbero occupare uno il posto dell’altro. Le due coalizioni, invece, si ostinano a dire il contrario e così tutta la campagna elettorale è stata impostata sul giochino «trova le differenze». Una noia. Troppo poco per veicolare idee forti. Questo è un problema soprattutto per chi straparla di continuità con l’esperienza arancione, mentre i due avversari bisticciano rivendicando la paternità delle proposte: l’avevo detto io, no io.

Beppe Sala, prototipo del candidato del partito della nazione – uomo dai poteri speciali per vocazione insofferente a condividere processi decisionali, chiamato a governare commissariando l’idea stessa di coalizione di centrosinistra, insomma la quintessenza del renzismo – almeno è stato costretto a dipingersi più di sinistra di quello che è. Le sue proposte però sono simili a quelle del suo avversario, anche se declinate con accenti più solidaristici. È un buon milanese, non aggressivo, di quelli che da sempre governano questa città senza disturbare i manovratori. Sicurezza e taglio delle tasse, soldati per le strade e utilizzo dei droni, legalità ma senza accanirsi a parole sui più deboli (le case popolari), meno multe per tutti e massima apertura sui diritti civili – argomento nobile che spesso viene esibito come copertura per non mettere l’accento sui diritti sociali. Che Milano sia una delle città più sicure del mondo (calo dei reati complessivi dell’8,4% calcolati al 30 aprile 2016, omicidi più che dimezzati negli ultimi due anni) non è buon argomento da campagna elettorale.

Ma Beppe Sala in tuta mimetica non impressiona nessuno, peggio invece è presentare il libro di un candidato sindaco di estrema destra – tale Nicolò Mardegan – la cui lista ospita esponenti di CasaPound; il fatto che lo abbia scritto con Pietro Bussolati, segretario cittadino del Pd milanese, la dice lunga sulla deriva di quel partito. Il presidente del Consiglio arriverà martedì a supportare Mr. Expo e non è detto che per il centrosinistra sia una buona notizia. Perdere Milano sarebbe l’inizio della fine.
Stefano Parisi, più a suo agio nel contradditorio e davanti a una telecamera, – «e più di sinistra», esagerano alcuni – rispetto a Sala può manifestare un liberismo più spinto e permettersi il lusso di contestare le piste ciclabili. «Vedete che sono diversi?», esagerano altri. Ma il suo problema è uno solo e si chiama Lega. Durante la campagna elettorale non ha fatto altro che cercare di smarcarsi dal partito che ha saldi legami con esponenti di estrema destra. Lo ha fatto con toni anche duri, inutilmente: la svolta fascistizzante di Matteo Salvini potrebbe convincere alcuni elettori nauseati di sinistra a non disertare le urne. Parisi, per dire del clima nel centrodestra, oggi non partecipa al raduno della Lega alla stazione Centrale. Non è invitato, meglio per lui.

La sinistra, ça va sans dire, è spaccata. Complicato schematizzare lo psicodramma che ha lasciato sul campo morti, feriti e depressi. Di Sel le malelingue dicono che si sia ridotta al suo stretto «cerchio magico» – fedelissimi di Pisapia ispirati da Gad Lerner – e sono quei pezzi rimasti attaccati a Sala dopo averlo eletto a bersaglio preferito. E i conti dell’Expo? Come non detto. L’imbarazzo è palpabile. Si sono inventati la lista Sinistra X Milano e per mimetizzarsi le hanno dato il volto rassicurante di Daria Colombo, moglie di Roberto Vecchioni e «girotondina» della prima ora. Si è già pentita. Tra loro, in fondo alla lista, anche tanti attivisti che ci credono. Agli elettori la sentenza (sondaggio: 3,8%).

Se Atene piange, Sparta non ride. Il percorso della lista Milano in Comune (Prc, Lista Tsipras, Possibile) è più lineare ma sconta l’incapacità di allargare i processi partecipativi al di là del vecchio schema secondo cui alla fine bisogna unirsi, almeno per resistere. Pesa anche l’assenza di conflitto (e di movimento) e l’incredibile pace sociale somiglia a un deserto. Allargare lo sguardo, innovare il linguaggio, coinvolgere ceto non politico, sarà per la prossima volta. Forse. Sottrarsi alle primarie non è bastato per risultare troppo attraenti. La lista Milano in Comune, prima della candidatura di Basilio Rizzo, 33 anni di consiglio comunale alle spalle, ha penato per trovare un personaggio disposto a metterci la faccia (Curzio Maltese e Gherardo Colombo hanno declinato l’invito). Però circolano percentuali dignitose: 4,2% alla lista, 7,1% per il candidato. Cosa faranno al ballottaggio? Domanda inopportuna prima del 5 giugno: ci sono elettori che non voterebbero Sala (e il Pd) nemmeno sotto tortura e altri pronti a deporre le armi per non ritrovarsi la Lega a Palazzo Marino. Sorvolano.

Quale manager vincerà? È complicato leggere il termometro della rassegnazione o del risentimento di chi non andrà a votare. Difficile anche capire dove finirà quel 14% del M5S in libera uscita. Al netto dei tormenti che ci riguardano, sono pur sempre il doppio dei voti delle due sinistre impossibili da mettere insieme.