Con la spesa del binomio Kurtag – Beckett, puntellato da più versioni di Fin de partie/Finale di partita, uno dei capolavori del drammaturgo irlandese e tra i capisaldi della letteratura teatrale novecentesca, l’edizione 2018 di Milano Musica, per dovere di cronaca la numero 27 Gyorgy Kurtag. Ascoltando Beckett”, sembra riprendere ed espandere al teatro e all’opera (consegnati l’uno nell’allestimento di Barraco-Mauri-Sturno al Piccolo Teatro Grassi, l’altra al prevedibile e, per come è stato atteso da anni, epocale lavoro di Kurtag su Fin de partie al Teatro alla Scala), il discorso cominciato esattamente vent’anni fa e mai interrotto con il compositore ungherese. Allora l’edizione in questione, la settima, presentava nel cartellone un curioso programma che al Teatro Litta allineava per le marionette di Budapest due “intermezzi” di Bartok, il grottesco musicale Aventures di Ligeti e soprattutto il Kurtag dei beckettiani Act sans paroles I e II.

PROPRIO l’estrazione dalla memoria del festival di quest’ultima piccola gemma consente di introdurre le ragioni più intrinseche del progetto inaugurale del festival che ha avuto luogo domenica al Teatro alla Scala. Qui in controluce e attraverso tre brani, tra cui nella seconda parte veniva eseguita la versione del ’47 del Petruska di Stravinskij, sono state messe subito in evidenza le linee principali del festival. Infatti, alla filosofia delle “penultime cose” di Beckett, filtrate da Kurtag, attraverso la sua lente irriflessa e apparentemente screziata dai sussulti della musica del ‘900, fa da contrappeso, l’assoluta “spudoratezza umana” di questa musica. Tutto ciò a dispetto della mai e quanto oggi inascoltata però auspicata moratoria di almeno cinquant’anni che dovrebbe colpire la produzione più nota del drammaturgo. Quindi una possibilità c’è ancora di poter udire l’inudibile, di tendere l’orecchio all’incessante e frammentato balbettio di un mondo che può essere rappresentato anche da un solo individuo.

Di là dell’ascolto poi non è dato di sapere e quanto di vero c’è in quest’affermazione si è potuto constatare nell’improvvisazione di Mike Svoboda, quasi una “Stripsody” per trombone, suonata dopo un’intensa esecuzione di “Watt” di Pascal Dusapin, composizione risalente al 1994 che rende ancor più tragico e umoristico l’impazzimento del servo Watt nell’omonimo romanzo di Beckett. Qui Svoboda gioca con lo strumento assorbendo in modo totale lo sviluppo drammaturgico del brano. Peraltro assecondato dalla Filarmonica della scala e dal suo direttore Gergely Madaras che, in questo percorso a ritroso, rende ancor più dinamica l’ouverture del concerto, aprendo la compagine scaligera alla completa accoglienza di “Zwiegesprach” dialogo per sintetizzatore e orchestra, composizione in più movimenti e a sei mani, se a Kurtag padre e figlio, s’aggiunge il trascrittore Olivier Cuendet, che riesce a scavallare qualsiasi possibile frattura familiare in un singolare approccio metodico e allo stesso tempo ancorato sia al passato (la tradizione che Kurtag tende a riformulare secondo canoni precisi) sia ad un futuro anteriore (Kurtag jr.) che sembra essere la cifra stilistica di una troppo ammiccante post-modernità.