Sotto il segno della crudeltà, fin dal titolo Estate crudele (Rizzoli «La scala», pp. 208, euro 17), si pone il nuovo romanzo di Alessandro Bertante, dove in prima persona si snoda in un chiuso e irrespirabile presente la parola del trentottenne Alessio Slaviero: si muove in un ambiente crudele, non senza una ostinata e determinata dose personale di crudeltà, agitata dalla nostalgia per orizzonti puri e incontaminati, per un perduto mondo eroico, per la forza nobile e ideale di cavalieri d’altri tempi. È la crudeltà «normale» e terribile della cupa estate milanese del 2003, vissuta «nell’angolo profondo di via Crespi, il ventre caldo e puzzolente» della città, «luogo che non dovrebbe esistere», che si trova «dietro a tutto e di fronte a nulla», che il personaggio sente come il suo «inferno». Qui egli vive in un piccolo appartamento, muovendosi nei paraggi come spacciatore di droga che personalmente non consuma, mentre si riempie piuttosto di antidepressivi (le gocce rosa di benzodiazepine) e di alcolici vari (che lo fanno muovere allucinato e sudato nelle strade del quartiere, di cui un’organizzazione criminale gli ha assegnato il controllo). Potrebbe essere una delle solite ripetitive storie di criminalità, tra le tante di cui è piena l’editoria attuale, nella stucchevole banalità del noir: ma non è così, anche perché questo piccolo criminale ha alle sue spalle una vita «normale» di studente (avviato verso una fallita carriera di ricercatore) e la vicenda di un amore troncato dall’improvvisa morte dell’amata: il suo approdo nel mondo dello spaccio e della piccola delinquenza sembra un’ostinata risposta all’impossibilità di una carriera normale, alla crudeltà del destino e alla stessa generale crudeltà della vita quotidiana. Si è così immerso in un mondo che odia, che attraversa con rabbia, anche se non vi mancano contatti umani e ambigui scatti di desiderio (come nel rapporto con un vicino di casa, il transessuale brasiliano Manuel, la cui disinvolta disponibilità sembra rendere più bruciante quella che egli chiama «la pena del mio cuore»).

L’odio è in effetti il dato caratterizzante del suo stare nel mondo e del suo linguaggio: odio che si rivolge contro lo stesso mondo in cui è immerso, contro gli atteggiamenti insensati e violenti in cui si risolve la quotidianità di un ambiente urbano slabbrato e degradato, dove sembra come accumularsi tutta la vanità e la cecità del presente, tra le esistenze di tanti disgraziati che si trascinano nei loro ottusi appetiti, che si intrecciano tra loro, si combattono e si disintegrano a vicenda, in una generale aggressività distruttiva e autodistruttiva, che porta sfaceli in uno spazio consumato, lacerato, invaso da scarti di ogni genere. Alessio odia tutto quel che accade, odia tutti coloro in mezzo a cui vive; e si tratta soprattutto di immigrati di diverse comunità, che pure tra loro si odiano, esseri rivolti solo alla propria rapace sopravvivenza, tra scene di ottusa violenza, come quella che apre il libro: il protagonista osserva da una finestra del suo appartamento il conflitto in strada tra un peruviano, che usa lasciare il proprio furgoncino in seconda fila, e dei magrebini spalleggiati da un macellaio egiziano, conflitto che finisce con l’assassinio dello stesso peruviano (e più tardi assisterà a una spedizione punitiva di sudamericani a via Padova, contro un locale tenuto da arabi).

È quasi ovvio che in un personaggio come questo Alessio Slaviero si affaccino atteggiamenti che sembrano sfiorare il razzismo: ma, nella negatività del suo odio c’è come un di più, un eccesso, un voler vedere le cose controvoglia, che in fondo lo porta a percepire quegli esseri che pur sente di odiare con una sorta di distorta pietà, come ad additare l’abiezione a cui sono stati trascinati dalla loro situazione, dal loro precipitare in quella Milano infernale, vera ragione e fonte di odio. Rabbiosamente Alessio sente gravare su se stesso e su tutti coloro che incontra il peso di qualcosa che ha cancellato ogni memoria, ogni dignità, ogni autentico valore: nella vita che si trovano a condurre tutti, e in particolare quei disgraziati, le stesse radici del passato (del loro passato) appaiono ormai degradate e stravolte. Lui allora si pone aggressivamente contro tutti, con la pretesa di vendicare la dignità perduta, esaltandosi follemente come un cavaliere di antichi tempi: in casa tiene una «sciabola da sottufficiale ussaro della Repubblica Cisalpina», comprata a una fiera di antiquariato, e sogna nostalgicamente eroismi d’altri tempi, cavalieri medievali ed eroi del Risorgimento, perfino le gloriose lotte del socialismo delle origini (quello fiduciosamente teso verso il sol dell’avvenire) o anche illusioni di generazioni più recenti. Di tutto questo non c’è più nulla; non c’è più la modernità, «che è stata solo un banale equivoco del ceto medio».

La realtà è solo rovina e stupidità: come mostra tra l’altro l’ossessiva invadenza della musica più banale (e ogni tanto si sente proprio la canzone Cruel summer), in cui riconosce «la salsa industriale dei nanerottoli, quella che ascolta il popolo di tutto il mondo, perché tutto il mondo è diventato una gigantesca pattumiera»: qui è tramontata definitivamente «l’ultima illusione umanistica» e si sente prossima la fine (che per lui, che vuole essere «l’ultimo dei cavalieri raminghi», rappresenta «l’ultima speranza di un galantuomo»).

Attribuendo queste e altre insistenti affermazioni di radicale negatività a questo criminale malgré lui ed evitando di assumerle in prima persona, l’autore sembra come spostarne la responsabilità sul personaggio: ciò finisce però per creare qualche scompenso narrativo e conduce a una sorta di incongruo riscatto morale, nell’esito finale del romanzo (di cui qui non dirò). La crudeltà e l’odio, che dominano impietosamente molti tratti del libro (con un’ostinazione che fa pensare a Céline o a Bernhard, certo in un impasto linguistico meno ricco, in una prosa che non cerca originali scatti stilistici, ma si fissa piuttosto nella percezione ferma della crudeltà dell’istante) vengono come a stemperarsi alla fine, a cercare una saldatura, una conciliazione e una espiazione forse fuori luogo.