«Mi sono candidato a luglio». Oggi qualcuno si permette di prendermi in giro quando lo ricordo. Qualcuno che a luglio probabilmente stava sotto l’ombrellone, mentre alcune migliaia di cittadini milanesi si preoccupavano, assieme a me, del fatto che il prossimo candidato sindaco di Milano emergesse dalle Primarie. Che il futuro sindaco non fosse selezionato in una stanza del Nazareno senza chiedere il parere dei Milanesi.

Però candidarmi a luglio significava qualcosa di più: darmi una corsa lunga, lunghissima, perfino estenuante, per incontrare i cittadini ancora una volta dopo 5 anni di, scusate la franchezza, marciapiedi e vie e condomini e piazze. Con questo spirito ho, e non da solo, scommesso sul bisogno di andare a cercare la città, ancora una volta. Del resto Milano è forte quando la sua ricchezza – di storie e condizioni – viene rispettata.

Rispettarla significa guardarla in faccia e sapere che vi è un enorme lavoro da fare, un’«ambizione positiva» da mettere in campo. Perché Milano, che è stata la città di Expo, che è tornata ad essere la Capitale Morale, che è stata laboratorio di innovazioni uniche in questi anni, è anche e ancora, la città dalle ferite sociali e dalle distanze «da colmare». Non serve quindi a nessuno immaginare che il nuovo centrosinistra possa governarla semplicemente evocando l’autosufficienza della forza dell’esperienza fatta sin qui. In altre parole servono ancora più radicalità e sinistra.

Ancora più radicalità e sinistra, ad esempio, quando vi sono in gioco il tema del riscatto sociale, della rivoluzione ambientale, della lotta al degrado, delle energie culturali da liberare. Altrimenti se l’idea del governo della città prescinde da tutto questo e diventa solo un gioco di «schieramento» tutto interno al palazzo del potere, perde la sua anima e la sua funzione. Pensiamo al tema della lotta alle povertà e alla precarizzazione.

Il riscatto in Italia o parte da Milano o non parte affatto. Di qui la mia proposta di istituire il primo reddito comunale d’Italia. Una cosa rivoluzionaria e sostenibile. Una cosa che a New York stanno costruendo perché, come dice il sindaco De Blasio, quando si parla di aiutare le persone a rimettersi in carreggiata, «non possiamo aspettare che sia Washington ad agire». Qualcuno ha bollato questa mia proposta come demagogica. Io la bollo come giusta. Io la bollo come di sinistra, perché sta alla sinistra investire nel futuro delle persone. Perché la ricchezza, a casa mia, è tale soltanto se viene condivisa, altrimenti è accumulo nelle tasche dei soliti noti. Perché Milano non può proprio continuare a muoversi a due velocità, quella dei grandi capitali e quella di chi non riesce a pagare la bolletta. Quella dei grandi studi del centro, che fatturano milioni, e quella di una generazione di trenta-quarantenni che percorre da sempre una strada in salita.

Quando parlo di «ambizione positiva» parlo di questa. Di rimettere le cose per il verso giusto. Di non accettare etichette di idealismo quando si parla di rivoluzione ambientale. Una rivoluzione praticabile, che guardi vicino nella lotta all’auto selvaggia e lontano quando si pensa a una Milano a zero emissioni entro il 2040.

Parlo di cose che si possono fare, ma che basta avere il coraggio di fare. Come prendere i 30 milioni di euro di soldi pubblici destinati, da Bilancio, all’abbellimento della Galleria Vittorio Emanuele e spostarli nelle periferie per rigenerare luoghi dove la bellezza nemmeno sanno cos’è, perché prima di quella viene il bisogno. Per la Galleria, splendida giustamente e da recuperare, ci sono i privati che fanno già a gara per contribuire: lasciamo che siano loro a occuparsi del ‘salotto buono’ di Milano, mentre noi, dal Comune, facciamo un altro tipo di impresa. Per chiudere: dopo gli anni dell’esperienza Pisapia ci sono tre strade possibili. Quella di snaturarne la portata e di annacquarne la forza, magari flirtando con il renzismo. Quella di insistere sul valore delle cose fatte senza porsi la domanda di fondo se esse siano sufficienti.
O quella, che credo di rappresentare, di insistere con la voglia di cambiamento. Di non accontentarsi, di sapere che un po’ di quel sogno «dell’arcobaleno» non si è mai sentito rappresentato del tutto in questi anni. E che invece, per i problemi di oggi e di domani, è proprio dalla voglia di rischiare ancora di più che si deve saper ripartire.