«Scrivere, figliolo, non è questione di essere leggibili, ma sinceri! Capito?» A parlare è il burbero benefico, soprannominato Commodo, a capo del corpo di spedizione russo impegnato a reprimere l’insurrezione dei boxer cinesi. Si rivolge al protagonista maschile di Punto di fuga (traduzione di Emanuela Bonacorsi, 21 lettere, pp. 392, euro 19,50) quarto libro italiano di Mikhail Shishkin, virtuoso affastellatore di stili e talento tra i più cristallini della prosa russa contemporanea.

A uno straziante livello letterale, «leggibilità» si riferisce alla calligrafia dello scrivano che redige gli elenchi dei caduti, ma l’evidente implicazione metaletteraria – sperimentare generando senso profondo – è estendibile a ogni testo di Shishkin: dal rifiuto di qualsiasi compromesso con il mainstream e i dogmi di fruibilità e trasparenza d’intreccio all’intento di situare al livello polisemico più profondo l’uomo nudo in un universo al punto di rottura, spaurito e indifeso eppure, paradossalmente, non più vuoto.

La sincerità alla quale Commodo allude andrà qui intesa come un vero indirizzo di poetica, declinabile in: destare emozione, illuminare la relazione tra individuo e storia, far emergere dal dedalo della forma un patetismo legittimato dall’intensità del processo di fruizione.

Il filtro dell’ironia

Shishkin ha conquistato a suo tempo il lettore russo e quello internazionale con La presa di Izmail, pseudo legal thriller e romanzo di formazione decostruito, e poi con Capelvenere, spostato nella Svizzera dell’emigrazione, con radici nel ciclo bretone e nella belle époque e un arioso cuore romano: la presenza della voce altrui approssima il centonismo (nel torvo neomedioevo putiniano si è arrivati all’accusa di plagio), la stratificazione dei piani di intreccio co-orbitanti è un puzzle impossibile che sottende epifanie, sempre filtrate dalla panironia, ma senza più nulla dell’autoreferenzialità postmoderna.

Rispetto ai libri precedenti, Punto di fuga concede di più in termini di fluidità di discorso, sempre incalzante, avvincente all’interno del singolo tassello e, al di là delle continue metamorfosi delle linee d’intreccio e della fisionomia dei personaggi (si può essere insieme, o prima e poi, direttore d’orchestra, pilota polare e attore in disgrazia), riconducibile a un tema unico: l’amore come centro e cardine dell’universo.

Protagonista, dunque, la struggente passione e poi l’atroce distacco tra Volodja e Sashen’ka: lui combatte da coscritto in Cina, vede i corpi e le anime disfarsi in carne, liquami e istinto belluino, si ricorda, nella Russia contemporanea, orfano di padre, aspirante scrittore, botanico dilettante in simbiosi con la natura; lei, brutto anatroccolo ipersensibile e dolente nell’infanzia, poi amante appassionata e solare, più tardi dottoressa addetta agli aborti e madre inerme di bambini morti, devastata dal dolore e dal lutto: un po’ strega, un po’ Alessandra (Sasha, appunto) la Grande dagli occhi eterocromi.

Il titolo dell’edizione italiana, completamente diverso da quello originale, evoca la dimensione non fisica del testo, che in altre epoche si sarebbe detta anagogica, e in sostanza esattamente tale è, perché dalla prima pagina l’energia che raccorda vicende, immagini e sentimenti è un’ostinata resistenza al big bang, la sopravvivenza del verbo primigenio aggrappato a un inamovibile punto di fuga, dal quale si dipartono infiniti fili, binari convergenti per i quali passa tutta la tensione e l’invenzione della storia e delle storie.

Il titolo in russo è invece Pis’movnik e vale a ribadire la dimensione del libro-mondo, sommatoria dei destini variati, riscritti dei personaggi, eppure vivi, lancinanti, senza che sfuggano a una globale intertestualità il cui germe è appunto nel titolo, chiaramente intraducibile, dove si rimanda a un «libro di scrittura» o «libro delle lettere» sul quale a cavallo tra Sette e Ottocento tutti i russi imparavano a scrivere, formavano la cultura di base, condividevano stereotipi verbali. Gli altri intertesti scaturiscono a fontana, ogni spasimo, ogni emozione è figlia di altre, precedenti, conquistando legittimità al patetico: il messaggio d’amore inciso su un chicco di riso è gemello delle scarpette della pulce meccanica del Mancino di Leskov, il giovinetto di Turgenev che scopre il suo Primo amore amante del padre torna declinato in figlia e madre e così via, a oltranza; al lettore italiano quasi tutto sfugge, e il libro, per intima magia, non ne perde.

Nel titolo russo è racchiuso anche un altro piccolo prodigio, l’effervescente rivisitazione e rivitalizzazione del romanzo epistolare, che di pagina in pagina si scopre asincrono, mantenendo centrale il motivo della fidanzata del soldato ma volgendosi con naturalezza in memorie d’infanzia e adolescenza dell’una e dell’altro, fino a un luogo di spiazzante genialità in cui il lettore condivide lo stesso sconcerto di lei nel ricevere la notizia della morte di Volodja, con ancora mezzo libro (mezza vita) davanti; ma le lettere continuano a arrivare, forse dalla Cina, forse dal regno del Prete Gianni, ambiguo demiurgo.

Sashen’ka trascina intanto una squallida esistenza che è il più sincero, straordinario pegno d’amore e insieme un autentico pugno allo stomaco del lettore, costretto a sposare la sua felicità mancata mentre lei invecchia e si fa matrigna aguzzina. Finché sarà concesso ai due amanti il ricongiungimento, in un bramato limbo in tutto speculare a quello che attende il maestro e Margherita.

Tutto questo universo di piani narrativi e spazio-temporali che scorrono uno accanto all’altro, cozzano e sfuggono, come i blocchi di ghiaccio nella fase iniziale del disgelo di un fiume – immagine più volte evocata nel romanzo – è dotato di una architettura che collassa su un tripudio di parole poetiche: appariscente nel continuo ricorso a metafore di Sashen’ka, più occulta nelle lettere di Volodja, dove è moltiplicata in catene di nessi e allusioni a uso, ancora una volta, del lettore partecipe.

Bagnanti inorriditi

Una per tutte: a fotografare il tessuto emotivo del testo è una coppia «giovane, bella e innamorata». Lei, nonostante una gamba mutilata al ginocchio saltella sulla spiaggia davanti a una folla di bagnanti-lettori «inorridita e invidiosa»; gamba lunga e moncherino stesi sulla spiaggia si sovrappongono alle lancette dell’orologio giocattolo di quando era piccola Sashen’ka, con le lancette che segnano le due meno dieci. Poi Sashen’ka salta su una gamba sola infilando le sue due nello stivalone da aviatore del padre, un aereo atterra sul ghiaccio su uno sci solo, si succedono in passaggi cruciali molte altre immagini di mutilazione, finché Sasha e Volodja si daranno appuntamento nel non tempo oltre la vita, naturalmente alle due meno dieci.

Tradurre un tale proteismo concettuale e linguistico è sfida oltremodo improba, e Emanuela Bonacorsi lo fa in modo più che meritevole, conservando freschezza e intensità e risolvendo con brillante inventiva molti ardui nodi, solo a tratti restando un po’ troppo cauta e letterale davanti a un organismo pulsante che va in larga parte reinventato.