È stata una donna, Joyce Carol Oates, a dire forse l’ultima parola sulla boxe quando scrisse che si tratta di uno sport sospetto o apertamente detestato perché rende evidente la violenza ben dissimulata che è alla base delle società incivilite, liberali e industriali. Di tale paradosso o inganno ottico, Mike Tyson è l’emblema onorario: un pugile nero che fra il 1986 e il ’96 ha combattuto 56 incontri (vincendone 50) ed è stato complessivamente cinque volte campione del mondo per tre sigle diverse senza essere un campionissimo ma, al contrario, la boxe machine cui la stessa Oates dedicò anni fa un breve profilo uscito in Italia negli Oscar Mondadori. Se a lungo l’arma di Tyson era stata la violenza squassante, il martellamento da centro ring che esauriva l’incontro in pochissimi minuti, solo in prossimità del ritiro egli ha attenuato o deviato la sua oltranza belluina in qualcosa di prossimo a uno stile degno di quanto i pionieri definirono la nobile arte. Ma non solo e non tanto parla oggi di pugilato True. La mia storia (piemme, pp. 640, € 19.90), l’autobiografia che Tyson ha dettato a Larry Sloman, scandita dal medesimo romanzo di formazione che lo ha diffamato a livello planetario essendo comprensivo di affari di droga, violenze private, stupro e bancarotta economica. Va apprezzato che l’intento non è di una allusiva redenzione ma di autochiarimento e va anche detto che se Tyson non è Ali, Sloman non è affatto Nat Fleischer, il fuoriclasse degli scrittori di boxe, né Toni Morrison, che dell’autobiografia di Ali fu l’editor ufficiosa. True non ha cioè la bellezza dei classici sulla boxe, come per esempio The fight di Norman Mailer o Raging Bull di Jake LaMotta che Martin Scorsese tradusse esemplarmente per il cinema, semmai True è un libro di nudi fatti disposti in sequenza e racconta l’iniziazione alla vita (a una vita finalmente consapevole) di qualcuno, un ragazzo nero di Brooklyn, che troppo a lungo ha confuso, da vittima e insieme carnefice anche di sé, le ragioni di un giusto riscatto con le lusinghe del successo ad ogni costo. Anche se non è scritto per i letterati ma per un pubblico di appassionati, nondimeno la buona qualità di True è proprio nel suo stile inapparente, lineare e percussivo, comunque mai cedevole alle tinte del melodramma o, peggio, ai toni della resipiscenza. Tyson racconta tutto quello che può raccontare, il suo fine è dare un senso o un equilibrio a qualcosa (una quantità di eventi eccessivi, esorbitanti) che a lungo deve essergli sembrato letale tanto quanto la violenza che un orfano ignaro di tutto, senza padre né maestri, sapeva sprigionare sul ring e fuori dal ring nei modi di una fatalità omicida e virtualmente già suicida. Non è un caso che a suo tempo Joyce Carol Oates abbia pensato soprattutto a lui quando scrisse che la boxe ci sbatte in faccia tutto ciò che dentro o fuori di noi non vorremmo mai venire a sapere.