Pochi altri filosofi hanno saputo mettere in evidenza la relazione stretta che lega ragione e fede come lo spagnolo Miguel de Unamuno. Questa relazione si concretizza in un termine, che è anche l’attitudine dell’essere umano sospeso tra l’angoscia di esistere e l’incoercibile speranza di immortalità. Questo termine è «agonia», in grado di significare la tensione fra la «lotta» per la verità e l’angustia per una fine certa. Da questa agonia può emergere una fede che sa di non sapere ma vuole comunque sperare una salvezza per la personalità umana. Ne parliamo con Armando Savignano, tra i massimi esperti di filosofia spagnola e recente traduttore e curatore dei testi più importanti di Unamuno sul nesso che lega filosofia e religione.

Partiamo dal dato biografico. Dapprima fiero oppositore della dittatura di Primo de Rivera, tanto da esserne esiliato, poi fiancheggiatore del regime franchista. Qual è, insomma, la posizione politica di Unamuno?

In occasione dei tragici fatti della guerra civile Unamuno si proclama dapprima favorevole ai nazionalisti, perché riteneva salutare una rivoluzione per risolvere quello che denominava «marasma» spagnolo. Ma ben presto si ravvide, accusando in un discorso ufficiale le forze militari falangiste di aver tradito certi propositi iniziali, gesto che gli costò la carica di Rettore dell’Università di Salamanca. Qui il 12 ottobre del 1936 si verificò un drammatico scontro, quasi fisico, col generale falangista Millán Astray, al cui grido di «viva la morte» e «abbasso gli intellettuali», Unamuno rispose con parole profetiche: «Potete vincere, ma non ci convincerete!». Unamuno fu relegato agli arresti domiciliari e si dice che sia morto di crepacuore la notte del 31 dicembre 1936, quando vide passare sotto la sua finestra le truppe naziste e fasciste in aiuto ai franchisti.

Ortega ha scritto che Unamuno «è sempre stato in compagnia della morte, la sua eterna amica-nemica». In effetti il pensiero di questo filosofo si presenta come una costante «meditatio mortis», ma con quali caratteristiche ed esiti?

Una forma espressiva del mistero della personalità è costituita dalla letteratura, specialmente dal romanzo esistenziale in quanto, appunto, meditatio mortis, o alla stregua di un «laboratorio di esperienza». Il «romanzo esistenziale» o personale, che è contrapposto alla narrazione psicologica, è funzionale alla creazione di «enti di finzione» attraverso i quali narrare la vicenda di una vita. Questo con speciale riferimento all’anticipazione della morte, che, essendo impossibile «rivivere», si cerca in tal modo di «pre-vivere» nell’immaginazione creatrice. Grazie a tale anticipazione immaginaria, il romanzo di Unamuno si rivela a tutti gli effetti una meditatio mortis.

Lei lo definisce un «precursore dell’esistenzialismo», sulla scia di Pascal e Kierkegaard. Ma rispetto a questi due Unamuno non è un anti razionalista, ed anzi la ragione umana si rivela per lui un tramite indispensabile fra Dio e il nulla.

Che sia stato precursore dell’esistenzialismo emerge anche dall’incontro con Kierkegaard, che Unamuno ha avuto il merito di aver introdotto in Spagna. L’attitudine esistenzialistica di Unamuno è affatto sui generis, al punto che egli riterrebbe addirittura «astratta» la posizione esistenzialistica in nome dell’uomo concreto in carne ed ossa. Non c’è dubbio, comunque, che il pensatore basco possa essere considerato a suo modo un esistenzialista cristiano nella linea Pascal-Kierkegaard, ma non per questo un irrazionalista. Pur avendo messo in secondo piano il ruolo della ragione – nell’accezione razionalistica e scientistica, insomma in quanto ragione strumentale – per far posto alle «ragioni del cuore», tuttavia egli non può essere annoverato tra i vitalisti irrazionalisti e neppure tra i fideisti, avendo adottato un’attitudine agonica. Perciò è frutto di fatali fraintendimenti la leggenda di un Unamuno intento solo a distruggere e non a costruire, giacché egli ha perseguito un disegno profondamente coerente ed unitario alla luce dell’unico problema vitale: l’ansia per il destino della personalità.

Sappiamo che il giovane Unamuno aveva coltivato forti simpatie socialiste, tanto che, pur da pensatore cristiano, aveva deciso di confrontarsi in maniera libera con l’affermazione marxiana della religione come oppio dei popoli. Con quali risultati?

Effettivamente in gioventù Unamuno condivise gli ideali di un socialismo umanitario e libertario con forti ascendenze anche anarchiche. Tali istanze permangono anche nell’Unamuno maturo, come emerge dal celebre romanzo sul curato Sant’Emanuele martire, in cui si oppone a ciò che è verità «per la religione dogmatica, basata sull’autorità», prediligendo ciò che è vero «per la religione scettica, alla ricerca inquieta di Dio come fonte della libertà». In questo contesto viene anche affrontata la questione sociale, rispetto alla quale Unamuno assume una rigida posizione incentrata sull’affermazione evangelica «il mio regno non è di questo mondo». La religione non è fatta per risolvere i conflitti economici o politici del consesso umano, secondo Unamuno: «Pensino gli uomini a come operare, ed a ciò si attengano, si consolino di essere nati, vivano il più contenti possibile nell’illusione che tutto ciò abbia una finalità».

Quella di Unamuno è stata una fede tormentata, per molti versi tragica, alla continua ricerca di un Dio che, come tutte le cose profonde, ama la maschera (Nietzsche). Si è parlato di nichilismo, o meglio di «nadismo» da parte di questo autore angosciato dall’enigma divino. Cosa ci può dire in proposito?

Occorre tuttavia osservare che è lo stesso Unamuno, nell’opera sull’agonia del cristianesimo, a chiarire le caratteristiche del tutto speciali del suo «nadismo» rispetto al nichilismo della filosofia europea. Un fenomeno tutto spagnolo che appare già in Giovanni della Croce, nel quietista Molinos e nel pittore novantottesco Zuluoga. Quest’ultimo, mostrando ad un amico il ritratto del calzolaio di Segovia, lo descrisse così: «Se vedesse che filosofo! Non dice niente!». Non è che dicesse che non c’è nulla o che tutto si riduce a nulla, è che non diceva nulla, chiosò Unamuno: «Forse era un mistico immerso nella notte oscura dello spirito di San Giovanni della Croce, o forse tutti i mostri di Velázquez sono mistici dello stesso genere. La nostra pittura spagnola non sarà forse l’espressione più pura della nostra filosofia? Il calzolaio di Segovia, non dicendo nulla di nulla, si è liberato dal dovere di pensare, è un vero libero pensatore».

Due figure letterarie sono centrali nell’opera di Unamuno. Da una parte Don Chisciotte, dall’altra Don Manuel, figura eminentemente tragica di sacerdote che, pur avendo smarrito la fede, continua indefesso a confortare i propri parrocchiani nella speranza che proviene dalla fede stessa. Che significati gli attribuisce?

Egli intravede nella vicenda chisciottesca le linee maestre dell’autentico spirito spagnolo ed inoltre l’unica possibilità di assurgere alle altezze filosofiche. Oltre che un potente incitamento ad abbracciare una vita imperniata sull’ideale etico, sull’eroismo tragico con conquistare quell’immortalità che solo una fede creatrice basata sul forte volere può consentire. Don Manuel gli consente, invece, di riflettere sul senso ultimo della vita. Nonostante il suo intimo travaglio esistenziale, il santo curato resiste alle suggestioni nichilistiche e si impegna al servizio di un idealismo etico-religioso simile a quello chisciottesco, incitando gli altri a vivere nella fede e nella speranza cristiana o almeno a riconoscere che la vita ha un senso. Eppure, non diversamente da Unamuno, Don Manuel pur avendo la ferma volontà di credere tuttavia non può credere: in ciò consiste il suo paradossale «martirio chisciottesco». Entrambi soffrono per l’abbandono di Dio, simile alla «notte oscura» di cui parlano i grandi mistici. Di qui la visione della religione non come inganno, ma semmai come illusione consolatrice.