Miguel Benasayag, psicoanalista argentino tra i maggiori intellettuali della contemporaneità, ha descritto con generosità e audacia molti nodi del presente. Celebre è il suo L’epoca delle passioni tristi (La Découverte 2003, Feltrinelli 2004, scritto insieme a Gérard Schmit) in cui, tra pratica clinica e sociale, emergono indicazioni importanti anche per capire dove ci troviamo adesso.
Se in quell’opera tuttavia la frattura era riconoscibile nel passaggio tra positivismo scientista, messianismo laico e l’attuale sfrenata fase neoliberista, ancora oggi colpiscono alcuni passaggi di grande efficacia. Per esempio quando parla della vita in emergenza, della deriva violenta che viene a prodursi quando si espunge l’autorità ma anche il significato di limite e la fragilità delle nostre esistenze, comprese quelle dei più giovani. Potrebbero essere tuttavia molte le ragioni per cui andrebbe riletta la sua critica alla tirannia degli algoritmi, come anche la riflessione sull’espulsione del conflitto, o ancora la confusione esiziale tra desideri generativi e voglie seriali del niente.

Nonostante il tempo sia diventato un gomitolo di incertezze ancora più difficile da dipanare, è il 6 marzo del 2020 quando Benasayag accetta di dialogare con Andrea Colamedici in un ciclo di conversazioni per l’editore Tlon che hanno avuto per tema la pandemia. Ora quella conversazione è diventata un ebook, breve e tenace fin dal titolo (La responsabilità della rivolta, euro 1,99 – disponibile dal 3 febbraio – i cui ricavati andranno all’ospedale «Bambino Gesù» di Roma).
Molti sono stati gli anni difficili nella sua biografia, per esempio quelli della prigionia nelle carceri argentine e le torture ricevute poco più che ventenne per essere stato nelle fila della guerriglia guevarista. Sopravvissuto, è poi partito alla volta della Francia avvantaggiandosi della doppia cittadinanza. «Conosci Cambalache? Ecco, il mondo è ancora oggi così». Ha un sorriso pensoso di connessioni impreviste, Miguel Benasayag, anche quando rammenta un tango, splendido, scritto nel 1934 da quel poeta che è stato Santos Discépolo.
Lo incontriamo per una videointervista nella sua casa parigina.

«La responsabilità della rivolta» è una riflessione critica in relazione alla pandemia, come anche «Cinque lezioni di complessità» (ora per Feltrinelli, in dialogo con Teodoro Cohen), fatte più o meno in quelle settimane. Da allora sono trascorsi diversi mesi e siamo in una condizione che non sembrerebbe potersi concludere presto. Se prima eravamo al cospetto di uno scenario che ci lasciava smarriti ma in attesa di sapere come si sarebbe depositato tutto questo, adesso siamo in un attraversamento sfibrante. È un’esperienza del trauma prolungato e anche di una trasformazione che ci riguarda tutte e tutti.
È ottimista l’uso della parola «attraversamento», vuol dire che è qualcosa che un giorno finirà. Può essere invece che noi siamo nel bel mezzo di un inizio di cambiamento radicale. Quello che sostenevo a marzo lo penso anche adesso, l’aspetto cioè della emergenza sanitaria è importantissimo ma non è l’unica dimensione della faccenda. Ciò cui assistiamo adesso era però già stato in qualche modo raccontato: la crisi sociale, culturale, industriale, che significato e implicazione ha l’Antropocene, abbiamo scritto e ribadito questi elementi per quarant’anni. Ma ciò che sta accadendo ora è la cristallizzazione di una realtà che si presenta proprio così a tutti gli abitanti del pianeta. Sembra insomma non esserci un «dopo-Covid».

Ed è vero che non c’è un dopo ma perché non è questo cui dobbiamo pensare, c’è infatti un ribaltamento radicale di cui non si conoscono ancora i contorni, non ne intuiamo esattamente la direzione. Il motivo è che non c’è una causa lineare di questa crisi, possiamo forse immaginare sia lo sfascio ecologico; sappiamo anche che ogni epidemia ha a che fare con la promiscuità tra specie che non dovevano essere prossime; c’è la deforestazione e molti altri fattori. Eppure non ritengo ci sia un movimento di causa-effetto lineare, piuttosto è caotico. Siamo entrati in una complessità massima che è assai perturbante; in proposito leggevo di recente che Bill Gates vorrebbe finanziare un progetto che aiuterebbe a ridurre la luce del sole per contrastare il riscaldamento globale (si tratta della ricerca «Stratospheric Controlled Disturbance Experiment», ndr); sembra fantascienza invece è un incubo assoluto.

La crisi attuale è dovuta a quella generale dunque, non solo al Covid. È dovuta a questo atteggiamento degli umani che, come diceva Cartesio, volevano diventare padroni della natura; un’attitudine virile, conquistatrice, di sopraffazione. Oggi vediamo un’accelerazione totale di questi punti e vogliamo vincere con un «passaggio all’atto», una soluzione unica come il vaccino. Certo che è necessario ma se pensiamo sia la soluzione ci sbagliamo, perché continuiamo a confondere la complessità con una linearità.
Quello che stiamo vivendo è un trauma prolungato, sì, ed è terribile perché poche sono le persone capaci di affrontarlo in solitudine. Tutta questa incertezza del non capire dovrebbe essere affrontata insieme, non da soli, con amici compagni persone con cui parlare e confrontarsi. È questo terreno della solitudine e dell’isolamento che permette attecchiscano forme di complottismo e fondamentalismo, di cui anche lo scientismo fa parte.

Ha descritto il passaggio dal futuro-promessa al futuro-minaccia, però ora il futuro-minaccia è come se fosse diventato più claustrofobico, quasi a far scomparire lo stesso futuro di cui non si parla più, come fosse una rottura del tempo. C’è però una ulteriore dimensione che è quella del presente, ma è un presente-rimosso, così impotente e disintegrato, tanto per parlare di «passioni tristi», da non poter essere pensato intero. Che grado di praticabilità abbiamo allora? Che forza dell’esistere?
È la questione centrale, il futuro è una virtualità del presente. Il futuro in questo senso non esiste, è il qui e ora l’agire – se lo intendiamo come emancipazione, come atto possibile. In questo senso il futuro diventa sempre più chiuso vivendo in un presente senza uscita.
Non si tratta allora di formulare promesse o programmi, piuttosto di agire qui e ora l’unico futuro concreto. Questo «adesso» come sfida dell’atto è oggi compromesso; le persone si aspettano un cambio di paradigma, non una promessa che è sempre rimandata a domani. È difficile fare il lutto di questo automatismo. Abitare il presente è una rivoluzione epistemologica, di pratiche, esige un ritorno all’atto, è fare ritorno dall’esilio verso e dentro la natura, tornare a trovare un accordo. Il Covid è una lente d’ingrandimento sulla insipienza di chi ha il potere sul mondo, non sanno niente, sono dei nani. Altrettanto il virus ci ha detto qualcosa anche sulla scienza, molto più confutabile di quanto noi l’abbiamo sempre immaginata. Questo ci collega alla responsabilità dell’atto, alla prudenza.

Ci sono delle variabili inconoscibili che ci immergono nel non sapere, sia pure faccia parte costitutiva anch’esso del vivere. Ci sono però al contempo molti aspetti che sono stati disvelati – e su cui lei stesso ha lavorato molto: per esempio il cortocircuito del concetto di individuo invulnerabile, onnipotente. Insieme ad altre forme di tirannia, come quella algoritmica che ha predicato moltissimo e predetto niente. Il malfunzionamento è davvero generale, il punto è però che di tutte queste conferme ce ne facciamo ormai troppo poco. Ciò perché vi è un malinteso senso della fragilità che abita i viventi e i corpi?
La modernità ha eclissato e nascosto la fragilità del vivente e dei corpi, ha fatto finta che non vi fossero connessioni, collegamenti. Sul rapporto con il non-sapere Sartre ha scritto ne L’essere e il nulla ma adesso è la realtà ed è talmente forte da provocare due questioni: da un lato una posizione depressiva per cui, come nella sua definizione psichiatrica, non c’è più tempo e non c’è più un luogo e uno spazio dove andare; dall’altra parte c’è questo desiderio di fanatismo, di obbedienza, di trovare una verità. Se allora nella postura depressiva si arriva fino al cinismo e al nichilismo, nell’altro aspetto possono presentarsi reazioni anti-moderne o autoritarie.

Ciò che possiamo fare è di stare dentro a questo non-sapere in situazione, ampliando la dicotomia di cui sopra, dobbiamo cioè pensare che la dimensione globale esiste dentro ogni situazione, ogni agire è una scommessa.
Questa pandemia è terribile e verosimilmente finirà per trasformarsi in una endemia, non posso stabilirlo perché non lo so. Una cosa però è sicura: non possiamo dire che vorremmo un mondo diverso da quello che si è svelato con il Covid perché era già stato detto e disgraziatamente abbiamo avuto la prova che invece è proprio così che è; in questa forma a ritroso per cui ci si immagina di dire che «dispiace» ci sia stata la bomba atomica, le guerre, l’olocausto, la distruzione neoliberista. Sono cose avvenute, insieme alle pandemie di cui quest’ultima fa parte.

Si tratta allora di pensare e di farlo nel disastro della sinistra, nella distruzione di quel momento così importante, soprattutto in Italia, che sono stati gli anni Settanta. È in questo mondo modificato da diverse tirannie, compresa quella algoritmica o della sorveglianza permanente che attacca pesantemente la nostra intimità rendendoci trasparenti e dunque non umani, dove possono esistere vie di libertà e solidarietà. È una sfida per proteggere la vita, la tentazione della nostalgia è molto grande.
Ciò che mi aiuta personalmente è l’esperienza che ho avuto in carcere, una detenzione in cui i compagni diventavano pazzi per la paura della tortura, di questo terrore costante. Ecco perché dobbiamo respirare qui e ora, non stando in apnea attendendo il domani.

La pandemia ciascuna e ciascuno la affronta dal proprio osservatorio, sappiamo che non ci siamo arrivati indenni, che è questione di classe poterne stare al riparo e che non è andata allo stesso modo per chi ha proseguito nel lavoro esasperato o per chi il lavoro lo ha perduto e non lo ritroverà più. Soffermandosi sulla questione del dato psichico, può dirci qualcosa sulla sua pratica clinica in relazione alla sofferenza di chi incontra e cura? Visto che viviamo in uno stato che non solo è di distanza ma di abbandono. Quanto è importante oggi ciò che ha chiamato «clinica del legame» e «legame del comune» (con gli altri, con l’ambiente, con sé stessi)?
L’abbandono è ciò che contraddistingue l’individuo neoliberista, in particolare nell’abbandonare gli altri. Da un punto di vista clinico si tratta di capire come noi possiamo gestire la vulnerabilità dell’epoca; mi viene in mente una immagine che prendo in prestito dall’etologia cui ho sempre guardato con interesse. Può sembrare naif ma è quella del nido e degli uccellini che ci vivono. Per loro quel nido è forte e resistente mentre è qualcosa di assolutamente fragile. Eppure questa forza del nido, una forza relativa, è necessaria per la salute mentale degli uccellini. Cosa accade per esempio a quegli uccellini quando sperimentano troppo presto la tormenta? Questa è l’etica clinica degli adulti, costruire nidi dentro i legami, situazioni abbastanza forti da proteggere l’altro. Non è un’illusione, il nido è davvero resistente, certo non mai quanto una piramide. Allora ecco come si vive dentro la fragilità, non facendoci ingannare sulla sua qualità assoluta ma nemmeno rispondendo a essa con l’eliminazione o la rigidità di una piramide; in mezzo a tutto questo circola la vita. E sì, siamo circondati da adulti irresponsabili ma è nell’assunzione responsabile dei legami che si sostiene la delicatezza, la fragilità.

Come è mutata l’intensità della richiesta di aiuto anche nei bambini e negli adolescenti di cui da sempre si occupa? Ha visto delle trasformazioni?
Dall’inizio dell’inverno sì. Cioè da quando è stato chiaro a tutti che la retorica della guerra da vincere contro un virus era una sciocchezza. Certo era molto stimolante pensarsi combattenti, applaudire trionfanti dai balconi. Ora invece c’è il caos. Si tratta però di un crollo transgenerazionale, siamo seriamente solo all’inizio della trasformazione perché le persone dopo aver preso la pandemia ludicamente, come uno scherzo oppure come qualcosa che appunto atteneva a delle categorie specifiche ora capiscono che non si torna indietro e che si tratta dei corpi.

Se osserviamo clinicamente questo atteggiamento iniziale, si può fare finta di non vedere, di negare che tutto ciò sia vero ma è possibile per un tempo limitato, ovvero è il nostro corpo ed è la nostra salute mentale che ne porteranno i segni. Succede, è successo, anche a chi ha fatto finta di no. Vedremo cosa significherà l’aumento di un tipo di depressione di massa, cosa comporteranno le conseguenze psichiche e psicopatologiche.

Deleuze diceva che la tristezza è reazionaria, sembra un ammonimento troppo severo ma lo diceva pensando a Spinoza quando avvertiva sulla perdita della capacità di agire non facendo lavorare la gioia. Noi siamo in questa tristezza ed è interessante per chi governa il mondo che lo siamo, per noi meno perché questo renderci addomesticabili è pericoloso. Esploriamo i possibili reali, fare attenzione e prenderci cura degli altri per esempio. La questione è, ancora una volta, come proteggiamo la vita.

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SCHEDA. Profilo bio-bibliografico

Miguel Benasayag (Buenos Aires, 1953) vive da molti anni a Parigi, dopo quattro anni trascorsi nelle carceri argentine per aver militato nelle fila dell’Esercito Rivoluzionario del Popolo. In Francia continua a studiare e comincia la sua attività clinica che ancora oggi dedica in particolare all’infanzia e l’adolescenza. L’ambito delle sue ricerche è però molto più vasto, dalla filosofia all’antropologia e la sociologia e, negli ultimi anni, l’interfaccia tra epistemologia e biologia con una attenzione all’intelligenza artificiale e alle sue ripercussioni. Con il collettivo Malgré Tout, di cui fa ancora attivamente parte dagli anni Ottanta, ha pubblicato in aprile del 2020 «Piccolo manifesto in tempi di pandemia» (scaricabile dal sito di nottetempo). Molti dei suoi volumi sono tradotti in italiano. Si ricordano: «Il mito dell’individuo» (2002), «Contropotere» (con Diego Sztulwark, 2002), «Resistere è creare» (con Florence Aubenas, 2004), «Per una nuova radicalità» (con Dardo Scavino, 2004), «Malgrado tutto» (2005), «Contro il niente» (2005), «Il mio Ernesto Che Guevara» (2006), «L’epoca delle passioni tristi» (con Gérard Schmit, 2004); «Elogio del conflitto» (con Angélique del Rey, 2007), «La salute ad ogni costo (2010), «C’è una vita prima della morte?» (con Riccardo Mazzeo, 2015), «Il cervello aumentato, l’uomo diminuito (2016), «Oltre le passioni tristi: Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa» (2016), «Funzionare o esistere?» (2019)
«La tirannia dell’algoritmo» (2020), «Cinque lezioni di complessità» (con Teodoro Cohen, 2020). L’ultimo testo è «La responsabilità della rivolta», insieme an Andrea Colamedici.