Non occorre cercare lontano: il populismo è nato quando i partiti si sono messi ad inseguire la «politica delle emozioni». Sappiamo che c’è una differenza tra realtà e percezione della stessa: una conduzione ragionevole degli affari pubblici dovrebbe indirizzare sempre verso l’oggettività delle cose e non accodarsi agli allarmismi.

Purtroppo negli ultimi 20 anni è sempre di più accaduto l’inverso. Tanti parlano di «valori» e di «fatti» ma poi inseguono il vento delle emozioni pubbliche. Se ripartiamo dai valori e dai fatti, la polemica sulle Ong del «Search and Rescue» appare un polverone in cui tutto si confonde.

Il valore da cui ripartire è quello della vita: salvare vite umane è imprescindibile.

Chi critica le operazioni di SaR (da quelle di Mare Nostrum alle attuali) viene meno a tale valore fondante della democrazia. Se facciamo eccezioni a questo principio, mettiamo in pericolo la democrazia stessa e i suoi fondamenti, perché non ci possono essere eccezioni sulla vita umana, né differenziazioni.

Una vita è una vita.

I fatti poi sono chiari da tempo: i flussi rispondono a «push factors» (guerre, carestie, ricerca di miglior futuro, land grabbing, crisi ecologiche, etc.), rispetto ai quali non c’è «pull factor» che tenga.

Le migrazioni sono tuttavia divenute un business per trafficanti senza scrupoli. Siamo dunque in ostaggio morale di costoro e, come nel caso della schiavitù, non abbiamo scelta se non salvare vite.

Voltarsi dall’altra parte sarebbe disattendere i fondamenti del nostro convivere e della nostra stessa Costituzione. Occorre quindi attrezzarsi per accogliere al meglio e per integrare (su questo manca ancora molto).

Laddove possiamo intervenire incisivamente è a monte: in Africa ed in Europa. Si trattengono i potenziali migranti solo a terra, non in mare e nemmeno in Libia, che è ancora un inferno.

Gli accordi che il governo sta negoziando coi paesi di origine e transito servono a questo. La cooperazione allo sviluppo si impegna nei rimpatri volontari assistiti e su progetti che creino lavoro.

L’«External Investment Plan» (migration compact) ci darà la potenza di fuoco necessaria per investire coi privati e ora sta nascendo al Parlamento Europeo. La trattativa sulla «redistribuzione» interna europea dei migranti continua.

È la prima volta che l’Italia mette in opera un programma completo, non limitandoci a gridare o inseguire umori, manipolando la paura a fini elettorali.

Com’è facile capire, tutto ciò è difficile e lento. Ci vorrà tempo.

Si deve anche sapere che l’apparente «egoismo» dei partner europei sulla distribuzione ha le sue ragioni: l’Italia non è il primo paese per numero di rifugiati o immigrati.

Più grave per i nostri partner è che, almeno fino al 2011, l’Italia ha chiuso gli occhi sugli arrivi, che «scivolavano» per la gran parte verso nord, senza controlli. Fornimmo addirittura carte di identità valide 15 giorni per favorire la partenza di 65.000 tunisini verso la Francia: gli altri non dimenticano…

Ugualmente si deve sapere che la contrarietà degli Stati africani sui rimpatri forzati ha anch’essa dei motivi: per motivi di bilancio noi non accettiamo – se non rarissimamente – le loro richieste sulla trasferibilità delle pensioni (per chi ha lavorato regolarmente qui per anni), né sulle doppie imposizioni: è la prima cosa che ci chiedono.

Infine sull’«aiutiamoli a casa loro» va tenuto conto che le rimesse dei migranti sono oltre il doppio dei denari dati in aiuto allo sviluppo.

Se vogliamo affrontare con successo la gestione comune dei flussi dobbiamo almeno conoscere tutto ciò che è in gioco.

Serve dunque sulle migrazioni una politica a largo spettro, se possibile bipartisan, per non incorrere nelle solite contorsioni polemiche preelettorali, inefficaci quanto indegne di una democrazia avanzata e di un paese civile.

* Viceministro degli esteri e della cooperazione