E’ un genere letterario operanteda decenni, eppure pressoché sconosciuto e pochissimo valorizzato. Si chiama «scrittura autonarrativa». Proviene dalle varie memorie personali e dai ricordi stesi da persone per lo più senza notorietà, e fornite a centri che raccolgono questo genere di lavori. La principale istituzione italiana in questo senso è la Fondazione di Pieve Santo Stefano, che è arrivata a custodire ben ottomila diari, lettere e memorie di privati. Adesso quella Fondazione ha compiuto un’operazione nuova e moderna e perfino, per alcuni aspetti, emozionante: ha fornito una selezione di quegli scritti a un giovane studioso molto bravo, che li ha riuniti in un testo che è, insieme, storico e letterario. Il Mulino ha pubblicato il frutto del lavoro e il risultato è un libro affascinante. L’autore si chiama Amoreno Martellini, ed è uno specialista di storia dell’antimilitarismo che insegna all’Università di Urbino. Il titolo è singolare, ma comprensibile già dalle prime pagine: Abasso di un firmamento sconosciuto (pp. 264, euro 20,00), che è più o meno la frase di un boscaiolo friulano che emigrò in America negli anni venti del secolo scorso, il quale si riferiva al paese dove doveva andare in un italiano pieno di errori («abasso» sta per «al di sotto»).
È però soprattutto il sottotitolo a spiegare di che cosa si tratta: Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative. Il secolo di emigrazione italiana viene ricostruito da Martellini – con l’aiuto di Laura Ferro, una specialista che ha lavorato a Pieve Santo Stefano – attraverso il montaggio intorno ad alcuni temi, di scritti e diari di 74 autori che hanno raccontato la loro emigrazione tra la fine dell’Ottocento e gli anni sessanta. I paesi dove quegli italiani andarono e di cui raccontarono – si tratta di uomini ma anche di molte donne – sono stati europei, americani, a Nord e Sud, e africani. È quindi un libro che fornisce una ricca e complessa «lettura» di un fenomeno finito anche di recente nel dibattito pubblico a proposito delle condizioni in cui si svolse (e forse ancora si svolge) l’emigrazione italiana. Non c’è dubbio, ad esempio, che il libro faccia tabula rasa del puro mito rassicurante dell’emigrante italiano. Non fu esattamente così. L’Italia tra Otto e Novecento cresceva anche perché i suoi uomini andavano all’estero per guadagnare i soldi da mandare in patria, e poi per raggiungere posizioni di rilievo nei nuovi paesi. Accumulare guadagni fu un punto cruciale dell’emigrazione italiana, la condizione di fondo per tutto il resto, compreso trasferire mogli e figli. Fu una situazione molto diversa rispetto all’emigrazione recente dall’Africa, sempre motivata dall’esigenza della sopravvivenza
Le vicende qui ricostruite sono spesso molto complicate e talvolta non solo spiacevoli, ma perfino di un’inaudita violenza. Le storie vengono raccontate da contadini, minatori, badanti, militari, muratori e da quelli che all’epoca erano solo sfortunati bambini. Ma non si tratta solo di storie private, perché vengono incrociate con le decisioni del governo italiano in situazioni che avrebbero potuto distruggere le famiglie, con padri, madri, figli che per anni si dovevano allontanare da casa (si veda la ricostruzione della posizione di Fanfani negli anni cinquanta). È quindi senza dubbio un pezzo di storia nazionale, ricostruita però incrociando la macrostoria politica e la microstoria narrativa dei protagonisti. E questa è una buona indicazione di metodo per futuri lavori: dare cioè un rilievo storico non solo alla politica, ma anche ai racconti degli individui, beninteso sempre vagliati con attenzione.
La violenza inaudita. In questo libro ci sono anche diverse pagine allucinanti. Si segnalano due episodi, entrambi di ambientazione militare, uno dei quali sconosciuto al grande pubblico. Quest’ultimo è stato scritto da un autore di cui Morellini, per la «scabrosità» del suo racconto, non riferisce il nome ma solo la sigla, «L.F.». L.F. nel 1914 si fece assoldare dalla cavalleria dell’esercito brasiliano e partecipò, durante il conflitto mondiale, alla «guerra del Contestado», in una zona al confine con l’Uruguay. I suoi comportamenti riconosciuti, che Martellini in parte forse attutisce, furono di una crudeltà inaudita: stupri, sgozzamenti, squartamenti, sevizie di tutti i tipi, che L.F. sembrò accettare del tutto. Sono episodi spaventosi.
L’altra vicenda militare, più nota, fu raccontata invece da un vicentino, Adolfo Farsari, che partecipò alla guerra civile americana e poi la raccontò nelle lettere. È la battaglia di Wilderness, il racconto di come venivano massacrati i prigionieri o di come soldati come Farsari dovettero raccogliere «i piccoli pezzi d’ossa e di carne» di interi reggimenti distrutti da una serie di terribili esplosioni di bombe. Sono altre storie piene di crudeltà, di ferocia e di cadaveri, oltre che delle solite implicazioni economiche, i soldi che gli emigranti italiani volevano incassare: in questo caso il famoso «bounty» che tutti conosciamo come la «taglia» per la caccia dei ricercati nei western.
Poi ci sono le ricostruzioni dei luoghi cruciali delle emigrazioni: le miniere (spesso teatri di eventi tragici), le piantagioni, i paesi coloniali, le famiglie ospitanti. È una rappresentazione ricca e talvolta ‘letteraria’, da questo punto di vista perfino sofisticata. Si indica a questo proposito solo un paio di pagine (pp. 119-120), straordinarie per la loro sottigliezza. Ci si riferisce a una lettera del secondo dopoguerra dettata da una madre analfabeta e disperata a un copista, per il figlio, che era andato da anni in Australia senza averla mai ricontattata. La donna racconta la propria vita e spiega il suo tragico passato, la povertà in cui è caduta per aiutare il figlio lontano, tutte cose che non han fatto muovere costui di un passo. Il copista non riuscì a spedire la lettera e la donna morì poco dopo, senza ricevere una risposta. Anche questo era l’emigrazione.