Era il 30 luglio 2018: la nave Asso Ventotto, della compagnia italiana Augusta Offshore, prese a bordo dei naufraghi trovati su un gommone in acque internazionali. Erano 101 persone secondo la nave, 108 secondo le vittime. Tra di loro cinque donne incinte e cinque bambini. La nave sbarcò tutti nel porto di Tripoli, con l’ausilio della motovedetta libica Ras El Jadir.

IL RESPINGIMENTO sarebbe rimasto segreto se la nave della Ong Open Arms non avesse captato e registrato le conversazioni radio tra la nave che lo operò materialmente, la Asso Ventotto, ed una piattaforma della Mellitah Oil&Gas (una partecipata dell’Eni). Nicola Fratoianni, che quel giorno era a bordo della Open Arms, oggi commenta la condanna del comandante. «Bene così» scrive su Twitter «La Libia non è un porto sicuro, se lo mettano bene in testa: non si gioca con la vita delle persone».

Seppur assolto dall’accusa di abuso d’ufficio, il comandante Giuseppe Sotgiu viene ritenuto colpevole per l’abbandono di richiedenti asilo – tra cui donne incinte e minori – alle autorità della Libia, Stato che l’Onu non riconosce come luogo di sbarco sicuro. Viene condannato ad un anno di reclusione, al pagamento delle spese processuali e al pagamento di cinquemila euro all’Asgi, costituitasi parte civile. Leggeremo le motivazioni della sentenza tra tre mesi, ma immaginiamo contengano il richiamo all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ovvero il divieto di espulsione, e all’articolo 19 del D.lgs. 286/98, legge italiana che vieta in ogni caso il respingimento e l’espulsione di minori e di donne in stato di gravidanza, nonché il respingimento di cittadini stranieri verso un Paese ove siano a rischio di subire torture e trattamenti disumani e degradanti. Abbiamo raggiunto telefonicamente il giurista Danilo Risi, primo firmatario dell’esposto che diede origine al processo; ci tiene a sottolineare che «questa di oggi è una grande vittoria dello stato di diritto: le persone devono essere trattate secondo legge, non secondo arbitrio».

GRANDI ASSENTI nel processo sono state le vittime. È un vuoto impressionante. Dopo molte ricerche, siamo riusciti a rintracciare alcune delle presunte vittime del caso Asso Ventotto, ma purtroppo non abbiamo prove materiali che le collochino sulla nave. A inizio 2021, per questo motivo, il giudice ha rifiutato la costituzione di parte civile di Nia (nome di fantasia), una ragazza eritrea.

Nell’estate del 2018 ogni sbarco sulla banchina di Abu Sittah, nel porto di Tripoli, veniva fotografato e postato sui social network addirittura dagli stessi account della marina libica; ma ad illustrare questo respingimento purtroppo non rimane nulla, ad esclusione di un video troppo scuro per poter identificare dei volti. La stessa sera quattro reporter di Reuters e Afp tentarono di documentare ciò che stava avvenendo, ma furono arrestati dalla polizia libica. Yonas ( nome di fantasia), diciassettenne eritreo, sostiene anche lui di essere uno dei minori respinti dalla Asso Ventotto. Lo chiamiamo al telefono mentre sta per entrare a scuola. La notizia della condanna del comandante lo scuote, fa riaffiorare tanti brutti ricordi.

«DOPO LO sbarco al porto di Tripoli» ha sempre raccontato «ci caricarono sui pullman e ci trasportarono nella prigione di Ain Zara». Lì c’erano 2000 persone, ammassate sul pavimento. Il cibo mancava anche per tre giorni consecutivi, l’unica acqua da bere era la poca che usciva da un water, le guardie picchiavano costantemente i rifugiati e le rifugiate. Dopo qualche ora Yonas ci richiama assieme a Nia e ad altri due sopravvissuti. Ci chiedono di ringraziare giudici, avvocati, attivisti, giornalisti e tutte le persone che si sono interessate al loro caso: «Questa vittoria ci rende felicissimi. Grazie per averci trattati come degli esseri umani».

«Ma adesso cosa cambia per noi?» chiede Tedros da un campo in Niger, dove l’Unhcr l’ha evacuato provvisoriamente più di un anno fa, in attesa del reinsediamento in qualche altro paese. «In teoria – spiega l’avvocato dell’Asgi – Piergiorgio Weiss, i rifugiati respinti dalla Asso Ventotto potrebbero fare ricorso civile in Italia e chiedere al giudice che venga concesso loro il diritto di tornare in Italia a chiedere asilo, come hanno fatto le vittime del caso Orione (causa vinta) e del caso Asso Ventinove (prima udienza il prossimo dicembre); ma il problema rimane collocarli sulla scena».

QUESTA SENTENZA, comunque, servirà a mettere un freno alle condotte illecite delle navi europee. Da oggi ogni comandante sa con certezza che consegnare naufraghi ai libici è un reato penale.
C’è da sperare, ora, che i governi cessino di ostacolare quegli armatori privati rispettosi delle leggi. Pensiamo al caso della Maersk Etienne, che rifiutò di consegnare 27 persone ai libici e venne lasciata 37 giorni in mare dal governo maltese. La strada è ancora lunga.