Con l’inchiesta di Trapani la magistratura offre il suo contributo alla campagna nazionale contro le Ong? La domanda è per Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza a Sassari e presidente di Magistratura democratica.
Può sorprendere la coincidenza temporale tra il sequestro preventivo della nave Iuventa e la mancata sottoscrizione da parte di alcune Ong, tra cui appunto quella titolare dell’imbarcazione, del codice di condotta del Viminale. Credo che si tratti solo di una coincidenza temporale. Non aggiungo altro, ci saranno delle indagini e un processo, leggeremo gli atti ed eventualmente li criticheremo. Quello che stupisce, però, è la lettura dominante che viene fatta di questa indagine, come fosse il punto di arrivo di una campagna volta a criminalizzare la solidarietà, l’accoglienza e chi si spende per essa. In primo luogo le Ong che più hanno contribuito al salvataggio delle vite in mare, specie dopo la sciagurata chiusura dell’operazione Mare Nostrum.
Come si giustifica un’inchiesta penale quando lo stesso inquirente, il procuratore Cartosio, si dice convinto che la Ong agisce a fini umanitari?
Sono dichiarazioni che indubbiamente stupiscono. Io penso che l’occasione di questa indagine vada colta per aprire una discussione sulla necessità dell’intervento penale in questa materia. Bisogna chiedersi qual è il discrimine tra il salvataggio delle vite in mare e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Partiamo da alcuni punti fermi: le persona che sono in mare rischiano la vita per fuggire da tragedie umanitarie o economiche. Occorrerà vedere se il pericolo che legittima lo stato di necessità sussiste comunque nel momento in cui si mettono in mare, indipendentemente dalle circostanze in cui vengono individuati e salvati, oppure no.
Questo discrimine non è appunto affidata alla magistratura?
È un grande tema che non può essere lasciato solo alle procure, anche perché siamo nel pieno di una campagna politica costruita sull’idea che i migranti non devono toccare le nostre sponde. Campagna allarmistica che prescinde dalla realtà, nel momento in cui lo stesso Viminale certifica che quest’anno gli sbarchi sono diminuiti. Eppure è una posizione che rischia di pagare molto elettoralmente e che può coagulare grande consenso proprio in ragione dell’intervento penale, strumento molto potente e simbolico da usare con attenzione.
Che giudizio dà del “codice Minniti”?
Di certo non può prevalere sui principi del diritto internazionale, tra i quali l’obbligo di soccorso in mare. Può essere uno strumento che favorisce la collaborazione tra le autorità e le Ong. Non dovrebbe servire a distinguere tra Ong buone e cattive. Alcuni punti del codice lasciano perplessi, come il divieto di trasbordare in mare i profughi che limita le possibilità di soccorso. In questo modo più che aiutarli a casa loro, come si dice per slogan, si finisce per lasciarli morire in mare.
Ammettendo la coincidenza tra l’azione della procura e del gip di Trapani e la mancata firma del codice da parte della Ong Jugend Rettet, il sequestro della nave è uno strumento proporzionato alle accuse?
Non mi esprime nel merito dell’inchiesta, il sequestro preventivo è legato alla pericolosità del bene e dunque alla necessità di evitare la reiterazione del reato. La domanda vera è un’altra: è davvero il reato di favoreggiamento lo strumento con il quale rapportarsi a questi episodi? Fin dove si estende il concetto di stato di necessità, che esclude automaticamente il reato? Le persone devono essere soccorse proprio sul punto di annegare, oppure sono in pericolo nel momento in cui si mettono in viaggio?
La sua risposta?
È semplice: gli scafisti sono l’unico vettore al quale possono affidarsi in mancanza di canali legali di ingresso. Ma non sono gli scafisti che li trascinano in mare, sono loro che fuggono da immani tragedie.