Nel momento in cui il presidente del consiglio si vanta per l’ ampliamento della libertà contrattuale concessa al datore di lavoro e per il restringimento imposto a quella della controparte, mi sembra opportuno tornare con maggiori dettagli su un tema trattato su Il Manifesto del 21 febbraio. Il rovesciamento dei rapporti di forza nell’ambito della normativa civilistica del lavoro può essere frenato dalle norme penali introdotte negli anni passati a tutela dei lavoratori stranieri. Trattandosi di diritto penale funzionale in via primaria a punire i trasgressori delle norme poste a tutela della libertà del lavoratore, l’eventuale sentenza favorevole per il denunciante non comporta un diretto ripristino di legali condizioni di lavoro e di equa retribuzione. Ma in tempi di magra , un intervento del giudice penale, quale extrema ratio, può contribuire a riportare il mondo del lavoro ai livelli di civiltà che erano stati raggiunti in anni non lontani .

Veniamo alle norme a tutela dei deboli cittadini stranieri, estensibili ai già forti cittadini italiani . Nel 2003 e nel 2011, dinanzi al progressivo incremento di flusso di immigrati, il Parlamento avvertì l’esigenza di integrare la normativa fascista sulla punizione dello sfruttamento schiavista dei lavoratori, dando particolare rilievo alla tutela di quelli naturalmente deboli, provenienti da paesi di economia e civiltà arretrate. Nell’articolo 600 del codice penale è stato quindi specificato, a fianco del reato di riduzione e mantenimento in schiavitù , il reato di riduzione e mantenimento in servitù, da intendersi come stato di soggezione in cui il soggetto attivo agisce «mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica».

Seguendo l’opinione di lavoristi e penalisti, alcune riforme legislative in corso di attuazione nel mercato del lavoro rendono attuale il profilarsi del lavoro servile: questo nasce nell’ambito di un anomalo accordo tra proprietario dei mezzi di produzione e prestatore di forza lavoro, che è caratterizzato da diverse limitazioni della libertà di quest’ultimo. Le limitazioni possono riguardare le condizioni di ingresso e di uscita nel rapporto di lavoro,la possibilità di scelta delle sue condizioni (orario, retribuzione, diritti sindacali,tutela della dignità), le mansioni,l’ambiente di lavoro.

L’attuale situazione economica e la disponibilità dell’attuale maggioranza governativa a soddisfare l’ ambizione dei contraenti più forti di esercitare la massima libertà nei confronti dei prestatori di forza lavoro costituiscono la premessa a che l’ipotesi della riduzione o mantenimento in servitù non abbia più i connotati di anomala trasgressione marginalmente limitata a settori geografici, etnici, produttivi, ma diventi una risorsa, promessa e concessa dalle forze di governo agli imprenditori come contropartita della cessazione dello sciopero degli investimenti e del rientro di quelli impiegati negli Stati a lavoro servile garantito.

La riduzione e il mantenimento in servitù può costituire il sogno finalmente divenuto realtà di un mercato del lavoro ,popolato da prestatori d’opera con limitata libertà di autodeterminazione, non più separati da linee di disuguaglianze tra autoctoni e immigrati, ma accomunati da una nuova cultura dell’uguaglianza nel lavoro servile . In questo moderno reato di origine e ispirazione internazionale, la giurisprudenza ha individuato il soggetto attivo( datore di lavoro o chi – ad esempio il caporale- eserciti i poteri corrispondenti) e gli altri elementi costitutivi: stipulazione, grazie alla situazione di necessità dell’altro contraente, di un accordo in cui la persona che presti la propria opera si trovi in uno stato di soggezione continuativa (di limitazione della propria libertà di autodeterminazione) e sia costretta a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento.

La tradizione giuslavorista e sindacale, unitamente a un’interpretazione giurisprudenziale costituzionalmente orientata, può individuare con precisione la soglia oltre la quale lo sfruttamento del lavoro sfocia nel campo del penalmente rilevante, consentendo così di frenare gli abusi più eclatanti e di supplire, in via indiretta, la cancellazione sul piano civilistico della tutela di quei lavoratori .

Sul concetto di sfruttamento, quale evento finale del reato di riduzione e mantenimento in servitù, è difficile ipotizzare un orientamento giurisprudenziale restrittivo in danno della tutela del lavoratore, posto che è stato proprio il Parlamento, nel 2011, introducendo il reato di caporalato, punito con la reclusione da 5 a 8 anni, a delineare gli elementi indicativi dello sfruttamento del lavoratore reclutato, con una disposizione che può essere utilizzata, come criterio interpretativo di analoghe condizioni, a tutti i lavoratori.

Secondo il nuovo articolo 603 bis del codice penale «costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze:
1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali; 2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale,all’aspettativa obbligatoria,alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti. Ha acquistato rilevanza penale, come aggravante specifica di questo reato, l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo.

Le norme di diritto penale costituiscono, unitamente ad altri fattori normativi e politici, una valida difesa per la libertà e la dignità dei lavoratori dipendenti e per il rispetto effettivo dell’articolo 36 della Costituzione.

C’è anche da chiedersi se, in caso di un’ efficacia garantista delle norme «distrattamente» lasciate in vigore, il governo e il Parlamento, nel loro impegno di custodi dei sogni degli imprenditori, osino, depenalizzando la riduzione in servitù e lo sfruttamento lavorativo, portare ulteriormente la normativa ad un livello incompatibile con i principi della nostra Repubblica fondata sul lavoro.