La circostanza che le violazioni dei diritti fondamentali di singole persone costrette a lasciare il proprio paese siano diventate tanto frequenti e prive di una qualsiasi sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso di individuare un «popolo migrante».

Un «popolo» dotato di una sua specifica connotazione, come è emerso da numerose testimonianze e da rapporti concordanti, come quelli delle Nazioni Unite, di MEDU e di Amnesty International, esaminati nel corso della recente sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei popoli.

Questo Tribunale può includere nella propria competenza violazioni sistemiche dei diritti dei popoli che non integrano direttamente o esclusivamente fattispecie penali di diritto positivo. I materiali probatori raccolti, la ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità possano avere però un riscontro anche nelle sedi giudiziarie ordinarie, fino ai gradi più alti della giurisdizione internazionale, nel rispetto dei principi e delle garanzie dello stato di diritto.

Il diffuso populismo giudiziario, emerso nelle indagini contro le Ong, e la timidezza dei giudici costituzionali nell’affrontare le questioni di compatibilità delle normative e delle prassi in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, come nel caso dei cd. “respingimenti differiti” disposti dai questori in assenza di un effettivo controllo giurisdizionale, costringono a riflettere sulla reale portata dei diritti fondamentali riconosciuti alla persona migrante, ed in qualche modo anche sugli spazi di agibilità democratica che rimane a chi opera quotidianamente nel campo della solidarietà, oggetto di vere e proprie campagne di criminalizzazione.

Quando sarà pubblicata l’imponente mole di testimonianze e rapporti raccolti durante la sessione del Tribunale permanente dei Popoli di Palermo , si potrà verificare sino in fondo la complicità del governo italiano e degli stati europei nei crimini contro l’umanità commessi in Libia e nelle acque internazionali ai danni dei migranti. Non soltanto una responsabilità per omissione, ma una responsabilità ancora più grave per avere deliberato accordi ed interventi, ed adottato misure operative, nella piena consapevolezza delle conseguenze che si sarebbero scaricate sulle persone bloccate in mare, riportate a terra dalla Guardia costiera libica ed intrappolate a tempo indeterminato nei centri di detenzione libici.

Dai lavori del Tribunale dei Popoli è emerso come la distinzione in Libia tra centri governativi e centri informali non regga più, e come anche nei centri visitati, magari una volta al mese, da funzionari ONU, anche lì, non appena finiscono le visite, riprendono gli abusi e le richieste estorsive. Come è emerso anche quanto sia precaria ed esposta ai trafficanti la sorte di quella esigua minoranza di persone che ricevono dall’UNHCR la certificazione di rifugiato, ma non godono in Libia un alcuno status legale, considerati sempre come migranti “illegali”.

La questione della giurisdizione in acque internazionali appare profondamente mutata dopo la recente dichiarazione delle autorità libiche di Tripoli che rinunciano alla istituzione di una zona SAR libica richiesta all’IMO (Organizzazione internazionale marittima) nei mesi successivi alle intese del 2 febbraio scorso tra Italia e Tripoli, ma mai accolta per assenza di requisiti. Oltre ad essere significativa per gli sviluppi futuri, quanto dichiarato adesso dall’IMO e dal governo libico confermano uno scenario che era stato identificato dalle denunce degli operatori umanitari, ma che il governo italiano aveva pervicacemente negato. Non esisteva, non è mai esistita una zona SAR libica, e dunque le autorità italiane hanno concluso accordi ed attuato prassi operative con uno stato che al di là delle proprie acque territoriali (12 miglia dalla costa) non poteva garantire alcun intervento di ricerca e soccorso in conformità alle norme imposte dalle Convenzioni internazionali.

I comandi di “stand by”  impartiti dal Comando centrale della Guardia costiera (MRCC) alle navi umanitarie che potrebbero intervenire con immediatezza in acque internazionali, e la “chiamata” alle autorità libiche, designate in un secondo momento come “Autorità Sar responsabile”, implicano scelte che corrispondono negli effetti ad un vero e proprio respingimento collettivo, attuato dalle autorità italiane in concorso con gli assetti europei presenti in acque internazionali.

Occorre sospendere gli accordi con il governo di Tripoli, e con gli altri governi che non rispettano i diritti umani. Vanno riaperti canali sicuri e regolari in Europa per rifugiati e migranti, anche attraverso il reinsediamento, l’asilo umanitario e i visti umanitari, il ricongiungimento familiare, la mobilità dei lavoratori per livelli di competenza e visti di studio; il diritto di richiedere asilo in qualsiasi circostanza, anche nei centri Hotspot, deve essere assicurato.

Occorre garantire che le politiche e le prassi di controllo delle frontiere dell’UE proteggano le persone e i loro diritti, e non abbiano lo scopo esclusivo, peraltro del tutto vano, di fermare i movimenti migratori. Saranno questi gli impegni per i quali continueranno a battersi nei prossimi mesi le centinaia di associazioni che hanno chiesto la sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli.

* Adif ( Associazione Diritti e frontiere)
Esponente della Requisitoria finale nella sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli