A leggere il capitolo dedicato all’immigrazione nel «contratto per il governo del cambiamento», si ha l’impressione che al «clandestino», da anni bersaglio della propaganda leghista sull’invasione, si sia aggiunto un secondo target, il richiedente asilo. Tutto l’impianto di proposte sembra reggere sull’assunto che il nostro paese, in attesa di superare il regolamento di Dublino, possa permettersi di accogliere chi fa richiesta di protezione solo compatibilmente con gli interessi di sicurezza e ordine pubblico da un lato, e di sostenibilità economica dall’altro.
Non una parola sull’integrazione, sull’inclusione lavorativa, sulle buone prassi del sistema Sprar da replicare. La parola accoglienza è associata a business e criminalità. E non mancano punte discriminatorie, come l’esclusione delle famiglie straniere dalle misure di welfare.

Via libera, quindi, a enunciazioni piuttosto vaghe e temerarie per fermare il flusso di profughi alla partenza: non c’è il tanto evocato blocco navale – che avrebbe ricevuto la condanna in sede europea per violazione palese del principio di non respingimento – ma si ipotizza che «la valutazione dell’ammissibilità delle domande di protezione internazionale deve avvenire nei Paesi di origine», scavalcando la motivazione fondante del diritto d’asilo, nato per quanti sono costretti a lasciare il proprio paese perché in pericolo.
Vengono poi previsti una serie di interventi sulla scia della strategia europea di esternalizzazione del diritto di asilo, già contenute nella proposta di riforma del regolamento in merito della Commissione europea: procedure accelerate, anche alla frontiera, e individuazione di paesi terzi «sicuri» a cui rimandare e affidare chi è bisognoso di protezione.
Per i richiedenti già presenti in Italia, nell’ambito di un più generale impulso securitario e repressivo, è prevista l’introduzione di «specifiche fattispecie di reato che comportino, qualora commessi da richiedenti asilo, il loro immediato allontanamento». E anche per quanti non ottengano alcuna forma di protezione, espulsioni e rimpatri a tutto spiano, da finanziare sottraendo risorse all’accoglienza.
Centinaia di migliaia di persone irregolari – la stima è di 500mila – di cui però solo una parte sono richiedenti asilo giunti negli ultimi anni e poi diniegati.
Il resto sono spesso stranieri residenti in Italia da molti anni, magari con famiglia, che hanno avuto difficoltà a rinnovare il permesso di soggiorno perché i criteri sono troppo rigidi e lavorano in nero. Come le badanti o i braccianti agricoli nel territorio pontino e nelle campagne del Nord.

Come è noto da tempo, è questa la popolazione che riempie i Cie, ora Cpr, dalla loro istituzione. Sui centri di permanenza di rimpatrio punta il futuro governo, portando a estreme conseguenze quanto avviato dal precedente e prevedendo la costruzione di un centro in ogni regione, con capienza «sufficiente per tutti gli immigrati irregolari, presenti e rintracciati sul territorio nazionale», si legge, e quindi incalcolabile. E andando a modificare il tempo massimo di trattenimento da tre a diciotto mesi, nella convinzione – negli anni già dimostratasi errata – che sia la lunghezza della detenzione a favorire il buon esito delle procedure di rimpatrio. Peccato che i dati del ministero dell’Interno confermino l’inefficacia dell’intero sistema: negli anni, la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute continua a essere costante intorno al 50%, a prescindere dal numero delle strutture e dai tempi di trattenimento, già portati a 18 mesi nel 2011 senza nessun risultato rilevante in termini di efficacia.
Fanno bene le associazioni Asgi, Caritas e Arci a preoccuparsi. E fa bene il deputato radicale Riccardo Magi a dire che sembra di essere tornati indietro nel tempo. Dalla nostalgia per gli anni pre Maastricht al fallimentare approccio securitario sull’immigrazione, come se non l’avessimo già sperimentato.