Ben lontani dalla retorica, lessicale e tematica, in un contesto paesaggistico ricco di storia e di passato (i giardini e le sale del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia – “Sarcofago degli sposi” compreso) 13 esseri umani di età, provenienza geografica, sesso diversi, raccontano come libri umani la loro storia di migrazione e di integrazione. Tutto ciò che si è sentito fino ad ora, alla tv o sui giornali, tutto sparisce. Il rapporto è uno a uno, in mezzo un metro statico di distanziamento. Due sedie, due persone, un libro e un lettore, un narratore e un ascoltatore. L’italiano la lingua comune, più o meno masticata bene. Sentire da voce reale la storia di una vita è di per sé una esperienza fondante: dopo si è diversi, l’animo è riempito di un nuovo viaggio, di una personalità sconosciuta, dopo si porta dentro un cofanetto prezioso con un diamante da tirare fuori nei momenti strani: una storia da riascoltare col potere della memoria per capire cosa, al mondo, vale. Perché fondamentalmente tutte queste storie, questi libri umani, parlano di valori: il rispetto di sé e dell’altro (degli altri), la dignità umana, la disuguaglianza, il desiderio (che è necessità) di parità. Dalla Romania, dall’Albania, dall’India, dall’Azerbaigian, dalla Costa d’Avorio, dal Mali, dalla Siria si arriva in Italia con l’aspettativa di una vita migliore: troppe volte la delusione è più forte delle difficoltà e dei rischi corsi per arrivarci.

L’ASCOLTO – così sottovalutato negli ultimi tempi – porta emozioni impossibili da cancellare: l’empatia, che la Fondazione Milanese Empatia (fondata da GianAntonio Mezzetti nel 2017) auspicava di suscitare smuovendo le menti delle persone, scatta guardando negli occhi chi a trent’anni sceglie di rinunciare a documenti e privilegi per percorrere la tratta del deserto fino alla Libia, la traversata in mare, l’approdo violento in una località che non accetta chi sta arrivando. L’empatia è pelle e cicatrici sulla fronte scura (“è stato un incidente” che equivale a “mio padre mi ha picchiato”), sentirsi ponte insieme alla ragazza indiana che non si riconosce in nessuna delle due nazionalità, quella di nascita e quella acquisita italiana. Empatia vuol dire seguire a occhi chiusi le note magiche, come una preghiera sufi, di uno strumento che assomiglia un po’ a un sitar un po’ a un mandolino, nate dalle mani abili di un signore maturo dal baffone e dal sorriso bianchi, che ha trovato una collocazione chiara nel nostro paese ma si accende e torna con il cuore in Oriente nel suonare antiche armonie (Battiato ha dichiarato del gruppo musicale di Fakhraddin, Sharg Uldusú: “Serie di antiche figure melodiche, trasmesse per via orale, ci riportano sonorità e profumi euro-asiatici. Da musicisti di prim’ordine di questo tipo dipende la preservazione della musica tradizionale”).

PARAGONARSI gli uni agli altri, conoscere di persona differenze e durezze al di là dell’immaginazione, imparare punti di vista totalmente altri è qualcosa che andrebbe insegnato a scuola: eventi di questo tipo posseggono la forza dirompente della vita e, per questo, andrebbero potenziati, diffusi, discussi e valorizzati. Sabato scorso al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia è successo qualcosa di simile a un passaggio di marziani: si chiamano Doumbia, Safia, Viktoria, Yaya, Lalit, Fakhraddin, Anisa, Brunilda, Sabrina, Megha, Shaza, Simona, Mahamadou. Salutiamoli con viso aperto e incoraggiamoli a tornare.