Certo, non ha la stessa importanza di un accordo commerciale, ma la questione tiene banco da mesi in Gran Bretagna tanto da essere entrata nelle trattative con l’Unione europea sulla Brexit senza però che il governo sia riuscito a trovare una soluzione. Per quanto possa ritenersi marginale, capire dunque cosa accadrà ai migranti che in futuro entreranno nel Paese senza un regolare permesso ha il suo peso, specie per un’opinione pubblica stressata dai continui allarmi per il crescente (si fa per dire se si paragonano i numeri a quelli di Italia, Spagna o Grecia) aumento degli arrivi di imbarcazioni cariche di disperati che attraversano la Manica sperando di poter vivere nel Regno unito.
Da domani, 1 gennaio 2021, la Gran Bretagna non potrà infatti più rimandare indietro i migranti provenienti dal continente europeo visto che il regolamento di Dublino, secondo cui la responsabilità di un richiedente asilo ricade sul Paese di primo approdo, non sarà più valido come conseguenza della Brexit. «Faremo valere il rigore della legge britannica a protezione dei confini» aveva tuonato lo scorso mese di settembre il premier Boris Johnson, quando l’uscita dall’Unione europea veniva ancora vista da Londra come «una chance per cambiare le regole di Dublino». Tre mesi dopo, cioè oggi, l’unica via che appare ancora seriamente percorribile è quella degli accordi bilaterali con Italia, Francia, Spagna, Cipro e Grecia, accordi sui quali il governo avrebbe già cominciato a lavorare ma che, da quanto se ne sa, sarebbero ancora in alto mare.

Anche se Londra ha sempre sottolineato come l’uscita dalla Ue non cambi l’obbligo del Regno unito di offrire protezione ai rifugiati come previsto dalla Convezione di Ginevra, tra i maggiori rischi paventati come conseguenza della nuova situazione c’è la perdita di un percorso legale per i ricongiungimenti familiari dei rifugiati. In passato, quando ancora si sperava di poter raggiungere un’intesa con Bruxelles, il governo ha proposto due accordi, uno per consentire il ricongiungimento familiare dei minori non accompagnati, e uno per la riammissione e il rimpatrio di cittadini di Paesi terzi privi di permesso di soggiorno. Punto delicato quest’ultimo visto che Londra lamenta di riammettere dal 2016 più persone di quante riesca a trasferirne fuori dal Regno. Entrambi gli accordi, però, sono rimasti sulla carta. Da considerare, inoltre, la possibilità di una diminuzione delle risorse oggi destinate all’assistenza di coloro che già si trovano nel Paese come richiedenti asilo. Una delle conseguenze dell’uscita dall’ Unione europea è infatti la perdita per la Gran Bretagna dei finanziamenti comunitari per l’integrazione e l’asilo, che per il periodo 2014-2020 sono ammontati a 500 milioni di sterline destinati dal ministero dell’Interno a ong e uffici locali.

Fino all’11 ottobre scorso sono stati 7.100 i migranti arrivati dall’inizio dell’anno in Gran Bretagna dopo essere partiti dalle coste francesi. Numeri che non dovrebbero rappresentare un problema ma che hanno scatenato una sorta di isteria nel governo Tory, tanto da arrivare a ipotizzare soluzioni a dir poco estreme pur di fermare gli sbarchi. L’ultima, svelata dai media britannici, prevedeva l’uso di reti per bloccare le eliche dei gommoni sui quali viaggiano i migranti, in modo da poterli poi riportare in Francia utilizzando le motovedette che pattugliano la Manica. Ma prima è stata ventilata la possibilità di collocare i migranti su vecchie navi ancorate al largo, ma anche di sistemarli sopra piattaforme petrolifere in disuso. Oppure di spedirli, come rivelato nelle scorse settimane dal Financial Times, in luoghi lontanissimi come l’isola britannica di Ascension, situata nell’Atlantico e distante 6.000 chilometri da Londra. Senza escludere la possibilità, rivelata questa volta dal Guardian, di creare dei centri di detenzione offshore sul modello australiano in Papua Nuova Guinea, Marocco o Moldava. Ipotesi, quest’ultima, che avrebbe incontrato il parere contrario del ministero degli Esteri per via dei costi e delle difficoltà di realizzazione. Tutti i progetti in seguito sarebbero comunque stati accantonati. Nel frattempo navi e aerei sono stati inviati nella Manica per rafforzare la «border force» impegnata a fermare i barchini dei migranti.