I filmati li mostrano sorridenti mentre tornano a casa. Sono i primi 17 palestinesi contagiati dal coronavirus. L’altro giorno hanno lasciato l’Angel Hotel di Beit Jala e il Paradise Hotel di Betlemme dove sono rimasti confinati per 14 giorni. Immagini che hanno dato speranza agli altri 35 contagiati in Cisgiordania e al resto della popolazione palestinese. Dopo l’annuncio a inizio mese che il coronavirus era arrivato a Betlemme, la città e il resto dei Territori occupati sono precipitati nell’angoscia. La paura ha serpeggiato nei campi profughi dove le famiglie vivono a stretto contatto. Il successivo isolamento dell’intero distretto di Betlemme, approvato dal ministro della difesa israeliano Bennett con il via libera dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), per giorni ha fatto temere il peggio. Poi il clima si è in parte tranquillizzato. Gli abitanti hanno smesso di assaltare i supermarket e le misure di contenimento del virus adottate dall’Anp sono state giudicate adeguate. Prevale un cauto ottimismo di fronte ai pochi casi (52) registrati sino ad oggi in Cisgiordania.

 

Ma il coronavirus è molto insidioso e non pochi temono che possa usare come vettori i circa 100mila lavoratori pendolari palestinesi (con permesso e senza permesso) che, nonostante i provvedimenti annunciati, continuano a recarsi in Israele e negli insediamenti coloniali in Cisgiordania dove il contagio cresce velocemente (fino a ieri 833 casi). Il primo tampone positivo registrato fuori Betlemme è proprio di un manovale, di Tulkarem, che lavorava a Tel Aviv.

 

Israele ha adottato misure sempre più severe per tenere in casa la popolazione e limitare al minimo i movimenti delle persone. Tuttavia di fronte all’economia in caduta libera a causa della pandemia, Bennett con approccio utilitaristico non ha proibito bensì contenuto l’ingresso in Israele e nelle colonie dei lavoratori palestinesi, restringendolo ad alcuni settori, come l’edilizia. Il ministro della difesa ha poi comunicato che i manovali palestinesi non potranno fare i pendolari e i loro datori di lavoro dovranno trovare alloggi dove ospitarli in Israele: ai palestinesi sono stati concessi tre giorni per prendere una decisione: andare al lavoro ed essere separati dalle loro famiglie a tempo indeterminato o rimanere a casa.

 

In 30mila avrebbero accettato le condizioni poste da Israele e deciso di non ascoltare l’invito del premier dell’Anp Mohammed Shtayyeh a non lasciare le loro case. I lavoratori si difendono. Sono coscienti, dicono, di correre dei rischi e di poter mettere in pericolo loro congiunti. Però, spiegano, non sono nella condizione di rinunciare, per mesi, a una retribuzione giornaliera di circa 200 shekel (50 euro) che rappresenta l’unico di reddito per le loro famiglie, spesso numerose. E l’Anp se insiste per il rispetto delle misure anti-coronavirus, dall’altro sa che fermandoli porterebbe alla fame migliaia di famiglie, senza contare che il lavoro in Israele rappresenta il 14% del Pil palestinese.