Domenica un mig di Damasco è stato abbattuto da F16 turchi. Per Ankara aveva violato il suo spazio aereo, rifiutando di adeguarsi a una serie di avvertimenti. Diverso il racconto di Damasco, secondo cui il caccia stava effettuando un’operazione a sostegno delle forze governative, impegnate in uno scontro con i ribelli nella provincia di Latakia, addossata alla frontiera con il paese anatolico.

Non è la prima volta che sui cieli al confine tra le due nazioni si registrano scontri. Nel giugno del 2012 la contraerei siriana colpì un aereo da ricognizione turco, uccidendo i due militari a bordo. Ankara rispose distruggendo un elicottero dell’aviazione di Damasco e varando una legge, nell’ottobre di quello stesso anno, che autorizzava interventi militari oltre confine. Il motivo: proteggere i villaggi turchi sul limes. Secondo diversi analisti la legge non è che uno strumento con cui sostenere le milizie che si oppongono a Bashar al-Assad.

Lo scoppio della guerra civile in Siria ha fatto saltare il dialogo che Ankara e Damasco avevano attivato negli ultimi anni, riuscendo a levigare parzialmente un background spigoloso di relazioni. Il buon vicinato era una sfumatura della dottrina della «profondità strategica», coniata dal ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu con lo scopo di non avere più grane con i paesi limitrofi e potenziare lo spazio di manovra nel perimetro del vecchio impero ottomano.

Erdogan, quando in Siria ci si è iniziati a sparare addosso, ha cambiato registro. Bashar al-Assad è divenuto un pericoloso carnefice. Vuoi perché in termini di immagine il dialogo con Damasco rischiava di ripercuoterglisi contro; vuoi perché Ankara, cercando di mettere l’ipoteca sul possibile regime change, ha annusato l’odore di grandeur. Le scortesie militari di domenica s’intersecano con lo scenario politico turco. Nel fine settimana ci sono le amministrative, prima tornata di un ciclo che proseguirà con le presidenziali di agosto e le politiche del 2015.

Erdogan, in vista delle urne, gioca anche la carta siriana. Domenica, in uno dei tanti comizi che sta tenendo nel paese, ha riassunto così l’abbattimento del mig. «I nostri F16 sono decollati e hanno colpito un aereo siriano. Perché? Perché se tu violi il nostro spazio aereo, noi reagiamo con un sonoro ceffone». Un’altra dichiarazione guerreggiante, che s’aggiunge a quella, recentissima, su Twitter: «Lo sradicheremo. Tutti vedranno la potenza della repubblica turca». Non importa se il nemico è la rete o un caccia di Assad. Erdogan minaccia tutti. Il primo ministro e il suo partito, l’Akp, sono alle corde a causa dello scandalo della corruzione deflagrato lo scorso dicembre. Anche uno dei figli di Erdogan, Bilal, è finito nel tritacarne delle indagini.

Il tutto rientra nel duro duello che Erdogan e l’imam Fetullah Gulen, i due pesi massimi dell’Islam politico turco, hanno ingaggiato. Gulen non sopporta più il protagonismo del primo e le sue tentazioni autoritarie. La gestione di Gezi Park ha fatto venire a galla tutte le differenze tra i due, a lungo alleati. Il capo del governo sa che la tangentopoli – ma anche l’economia che rallenta – può alimentare un’emorragia di voti.

Indossando gli abiti dell’uomo forte e risoluto, tenta di contenere le perdite all’interno della classe media e confermare il consenso tra le masse popolari conservatrici, che restano la spina dorsale elettorale dell’Akp. Da qui un copione cucito intorno a tre denunce. La prima si scaglia contro il nemico interno, cioè l’influente organizzazione civile-religiosa di Gulen, Hizmet. È etichettata come una setta bramosa di potere che con la sponda di polizia e magistratura (martellate dalle recenti purghe di Erdogan) vuole rovesciare il governo. La seconda denuncia è indirizzata a Twitter – Ankara ha bloccato l’accesso al sito – e al resto dei social media, bollati come stampella del gulenismo e simbolo della deriva modernista. Ultimamente sono state postate o cinguettate intercettazioni scomode, benché non provate, tra il primo ministro e suo figlio, in merito a grossi giri di denaro da nascondere. La terza denuncia, rinfrescata dai fatti di questa domenica, è quella contro il nemico esterno. La Siria di Assad.