«Non si tradiscono soltanto gli impegni presi alla Cop 21 di Parigi, ma tutte le promesse già fatte in precedenza: gli Usa avevano annunciato lo stop ai finanziamenti delle centrali all’estero, l’Italia un mese fa, per bocca del premier Matteo Renzi, ha detto di voler uscire dal carbone: ma poi attraverso Sace finanzia un nuovo impianto in Repubblica Dominicana».

Mariagrazia Midulla è Responsabile Clima ed Energia del Wwf Italia, e ha contribuito a elaborare  lo studio Swept under the Rug: How G7 Nations Conceal Public Financing for Coal Around the World, l’ultimo rapporto denuncia contro i sette Grandi, riuniti domani e dopodomani in Giappone. Nel periodo 2007-2015, dice il report, il G7 ha messo ben 42 miliardi sulla costruzione di nuove centrali.

Da un lato promettono, dall’altro gli investimenti non si fermano.

Per alcuni Paesi, come è il caso del Giappone, addirittura i finanziamenti vengono rivendicati apertamente: durante Cop 21 gli ambientalisti di Tokyo ci hanno spiegato che il governo nipponico dichiara gli investimenti sulle centrali all’estero come finanza per le politiche climatiche.

Si può fare a meno oggi del carbone?

Assolutamente sì, il carbone è il primo combustibile fossile di cui possiamo fare a meno, e il peggiore per emissione di anidride carbonica e per i danni causati all’ambiente e alla salute delle popolazioni. Bisogna tagliare sia i finanziamenti diretti che quelli indiretti: Sace, agenzia pubblica italiana, ad esempio non sta investendo direttamente per la centrale di Punta Catalina, in Repubblica Dominicana, ma offre una garanzia ad alcuni finanziamenti bancari.

C’è ancora molto carbone all’interno del territorio italiano?

Abbiamo ancora dodici centrali, alcune delle quali, come quelle di La Spezia e Brindisi, piuttosto inquinanti. Assicurano circa il 13,5% del fabbisogno elettrico del nostro Paese. Più in generale abbiamo una quota inferiore rispetto alla Germania, che ha le miniere, ma pesa comunque molto sulle emissioni di CO2: il 35-40% delle emissioni di anidride carbonica del settore elettrico vengono dal carbone. È chiaro che il nostro obiettivo deve essere quello di chiuderle. Per fortuna sono stati abbandonati i progetti di nuovi impianti o di riconversioni, come quelli di Saline Joniche e di Porto Tolle, ma questo ancora non basta per una inversione di tendenza, soprattutto se pensiamo che parallelamente si è avuta una battuta d’arresto sullo sviluppo delle energie rinnovabili.

Quali soluzioni si possono suggerire al nostro governo?

Bisogna rendere il carbone economicamente meno vantaggioso, con una carbon tax o con limiti più rigidi alle emissioni delle singole centrali: così chi li sfora dovrà essere obbligato a chiudere o a intraprendere costosissimi ammodernamenti, al giorno d’oggi non più convenienti sul piano economico.

L’Italia sarebbe già capace di vivere a carbone zero?

Oggi si può sostituire completamente il carbone che ancora utilizziamo: la nostra capacità di produzione complessiva di energia elettrica è pari al doppio del picco massimo di richiesta mai raggiunto, registrato lo scorso luglio. Ma soprattutto si deve tornare a investire sulle rinnovabili: gli ultimi dati di Assoelettrica, di inizio anno, registrano ancora una perdita di posizione dopo le buone performance degli anni passati. Si sono tagliati gli incentivi e si continuano a frapporre ostacoli all’installazione di fotovoltaico sulle case, sulle imprese, invece di varare sgravi fiscali come negli Usa. Il nuovo ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, ha annunciato di voler rivedere la strategia energetica unificandola con quella del clima: ottimo, speriamo che alle parole adesso seguano i fatti.