A una settimana giusta dalle elezioni midterm che determineranno la composizione del 114mo congresso – l’ultimo con cui avrà a che fare Barack Obama – i pronostici indicano come probabile una vittoria repubblicana di misura. Al Gop, che gode già di una ampia maggioranza alla camera, basterebbe conquistare sei ulteriori seggi per controllare anche il senato.

Con in mano entrambe le camere del congresso l’opposizione conservatrice potrebbe paralizzare il resto del mandato Obama, bloccando ogni iniziativa legislativa con l’obiettivo di sabotare il prossimo candidato presidenziale democratico – con ogni probabilità sarà Hillary Clinton – e riconquistare la casa Bianca nel 2016. Attualmente nel senato di Washington siedono 54 democratici e 45 repubblicani ma il consenso dei sondaggi assegna oltre il 60% di probabilità che questi ultimi riescano a vincere la maggioranza delle gare contese, confermando la dinamica per cui i presidenti in carica vengono tradizionalmente «puniti» dalle elezioni di mezzo termine.

Quest’anno ci sono 34 stati con in ballo elezioni per senatori ma solo in una manciata di questi si tratta di confronti competitivi in cui il risultato è ancora in forse. Nella maggior parte dei casi infatti i candidati in carica avranno una rielezione pressochè assicurata, l’effetto di una polarizzazione sempre più calcificata, una forbice ideologica che divide il paese in roccaforti «blu» e «rosse», sacche «culturali» in cui democratici e repubblicani rispettivamente godono di maggioranze inamovibili arroccate su posizioni sempre più incompatibili.

È la partisanship oltranzista che ha prodotto un insanabile «impasse» legislativo per gran parte della presidenza Obama e bloccato a più riprese Washington con serrate di governo provocate da ultimatum repubblicani su temi di politica fiscale. L’esito delle elezioni midterm sarà quindi determinato dagli elettori di pochi stati, perlopiù del centro del paese come Colorado, Arkansas, North Carolina, Iowa e Kansas dove la differenza a favore dei repubblicani rischia di farla il basso gradimento di Obama.

Aldilà di argomenti di interesse locale, molte delle campagne repubblicane hanno quindi mirato ad inquadrare le elezioni come un referendum sul presidente variamente denigrato come inefficace, temporeggiatore e cripto-socialista. Un chiodo fisso delle campagne è la riforma sanitaria che porta il suo nome e che rimane una vera ossessione per la destra: da quando i repubblicani hanno conquistato la camera quattro anni fa, la sua abrogazione è stata messa all’ordine del giorno ben 54 volte, un futile esercizio di populismo dato che una simile iniziativa non ha alcuna possibilità di passare un voto del senato, ma che da la misura dell’accanimento repubblicano contro le riforme sociali e contro questo presidente in particolare.

Sotto tiro è anche la politica mediorientale di Obama, precedentemente criticato per il ritiro «prematuro» da Iraq e Afghanistan (entrambi in realtà siglati da Bush)e ora per un ritorno all’interventismo giudicato eccessivamente timido. Nelle ultime settimane, nel repertorio elettorale repubblicano è stata cooptata anche le gestione dell’emergenza ebola, impugnata dai candidati conservatori come emblematica dell’inefficacia obamiana e utile strumento per aizzare gli animi populisti e alzare la pressione politica come dimostrano le quarantene obbligatorie istituite in New Jersey e Illinois ma anche nel New York del democratico Andrew Cuomo.

È significativo che sulla questione delle quarantene il governatore liberal di New York, che il 4 novembre affronterà la rielezione, si sia trovato in disaccordo con la linea moderata di Obama. Ma Cuomo non è certo l’unico democratico a volersi smarcare da un presidente «scomodo». I candidati democratici hanno fatto a gara per distanziarsi da Obama, spingendosi in alcuni casi a criticare apertamente alcune sue politiche. Le offerte di assistenza della casa bianca sono state cortesemente respinte e i comizi congiunti accuratamente evitati con malcelato dispiacere del presidente che si è trovato limitato a fare semplice fundraising per il comitato centrale del partito.

Al di la del fattore Obama tutto potrebbe risolversi, come ormai accade sovente nelle elezioni Usa, in una manciata di circoscrizioni particolarmente «in bilico». In questo contesto l’astensionismo che tradizionalmente caratterizza i midterm, è anch’esso amico dei repubblicani e la base obamiana è certamente più demotivata che nelle ultime tre elezioni. Se rimarranno a casa sufficienti numeri di aventi diritto democratici delusi, sarà difficile mantenere unita la coalizione che per due volte ha portato Obama all’ufficio ovale: donne, giovani e minoranze, in particolare neri e latinos. Questi ultimi in particolare rappresentano il 17% della popolazione e sono il gruppo etnico di maggiore crescita del paese al punto che molti analisti considerano che la dinamica politica in futuro sarà sempre più caratterizzata dal confronto di brown vs. gray cioè fra elettori ispanici e democratici in forte aumento contro un elettorato bianco e maschile – lo zoccolo duro repubblicano – in progressivo invecchiamento e declino.

È ciò che sottende lo scontro sulla riforma dell’immigrazione coi democratici a favore di una amnistia che ingrosserebbe inevitabilmente le fila dei loro elettori e i repubblicani che insistono sulla linea dura. E si spiega così anche una strategia centrale dei repubblicani che mira ad ostacolare con ogni mezzo la partecipazione di nuovi settori sociali. In quest ottica is è inserita un opera sistematica per istituire leggi che rendano più disagevole il voto come l’abolizione del voto per posta e di quello «anticipato» (nella maggior parte delle giurisdizioni entrambi sono disponibili nelle due o tre settimane precedenti agli scrutini). Col pretesto di combattere l’immaginario problema della frode elettorale, molti stati ad amministrazione repubblicana come il Wisconsin , l’Ohio e il Texas hanno imposto norme più severe di identificazione, ben sapendo di poter così escludere sostanziali numeri di elettori più poveri e di colore (leggi democratici).

Molte di queste leggi varate ad hoc per entrare in vigore in tempo utile per queste elezioni sono state denunciate dai democratici e da associazioni per i diritti civili. E in alcuni casi le misure sono state giudicate incostituzionali da tribunali d’appello. In Texas però, uno stato con una popolazione ispanica di quasi il 40%, una legge che introduceva l’obbligo di esibire i documenti ai seggi è stata dapprima bloccata ma in seguito autorizzata dalla corte suprema. La stessa corte costituzionale aveva in precedenza autorizzato l’Ohio ad abolire il periodo di voto anticipato e permesso al North Carolina di eliminare l’iscrizione alle liste di voto direttamente al seggio.

Sono sentenze che dimostrano l’importanza della maggioranza conservatrice che fa della corte suprema l’asso nella manica dei repubblicani. Già l’anno scorso la supreme court guidata da John Roberts su cui siedono giudici estremisti come Samuel Alito, Clarence Thomas e soprattutto il patriarca reazionario Antonin Scalia, aveva smantellato buona parte del «voting act», il pacchetto di garanzie sul diritto al voto varato da Johnson nel ’65 in seguito al movimento dei diritti civili.

In risposta alla petizione di Shelby county, una contea dell’Alabama, la corte ha riautorizzato i singoli stati ad istituire leggi elettorali senza la preventiva autorizzazione federale che era stata imposta 50 anni fa per ovviare ai soprusi usati fino allora, soprattutto al sud, per limitare il voto dei neri. Metodi collaudati con cui i repubblicani «contrastano» una «deriva» etnica e demografica che non li favorisce, ma che con una giusta strategia e l’appoggio di imponenti finanziamenti privati (anche su questi contributi i limiti sono stati aboliti di recente dalla corte suprema) può essere tenuta a bada – a partire da martedì prossimo.