Mercoledì un fanatico razzista entra in un supermercato del Kentucky e ammazza due avventori afro americani. Venerdì viene arrestato l’ultra-trumpista che avrebbe usato il suo furgone tempestato di immagini del presidente come centrale di spedizione di pacchi bomba a una dozzina di esponenti democratici. Sabato un filonazista entra in una sinagoga di Pittsburgh e fa strage di «parassiti giudei».

QUESTA LA NERA CRONACA della scorsa settimana, una apoplettica ante vigilia del midterm che sarà referendum sul presidente che lunedì, appena prima che cominciasse a scorrere il sangue, aveva proclamato: «Sì, sono una nazionalista. Non abbiate paura di questa parola». Quel raro momento di candore era giunto in un comizio a Houston, uno di dozzine tenuti a ripetizione nelle fasi finali della campagna elettorale con l’obbiettivo di caricare la base della rabbia, risentimento e paranoia necessarie a tenere la linea contro una rimonta democratica nel Congresso.

Ma la dieta di astio e rancore serviti quotidianamente dalla Casa bianca ha cominciato a dare i suoi frutti avvelenati: due anni di odio e sospetto normalizzati non potevano non far affiorare la violenza latente. Dinnanzi alle stragi e agli attentati, Trump ha letto ufficiali dichiarazioni di cordoglio e condanna in sala stampa, salvo scagliare la sera nuove incendiarie bombe demagogiche nei comizi che continua quotidianamente a tenere davanti a folle inneggianti.

Quelle in cui è stato ritratto anche Cesar Sayoc Altieri, lo squilibrato bombarolo apparentemente affetto da «ossessione trumpista» che ha fornito una rappresentazione coerente degli effetti dell’odio sistematicamente disseminato via slogan e tweet sulle frange più predisposte. Allo stesso modo fra le farneticazione dello stragista antisemita di Pittsburgh – Robert D. Bowers – c’era la ricorrente denuncia di una «mano ebraica» nell’organizzazione delle carovane di profughi in Centro America. Frammenti dello stesso delirante copione riproposto in comizi infiammatori, conteziose conferenze stampa e sproloqui complottisti legittimati dal pulpito della Casa bianca.

A CHI GLI HA CHIESTO CONTO dell’incitamento suggerendo una moderazione dei termini, Trump ha riposto «potrei semmai rincarare la dose» scaricando il barile sui nemici di sempre – gli infidi democratici e la stampa ostile. Allo stesso modo i trumpisti negano il nesso evidente fra ondata antisemita (60% di episodi in più nel 2017 rispetto all’anno precedente, la maggiore impennata dal 1979) e le continue insinuazioni su George Soros e i banchieri «globalisti» – riedizione non tanto velata di un complottismo da Protocolli dei Savi di Sion. E ancora una volta la colpa è stata addossata alle vittime: «Se fossero stati armati gli andava meglio» ha detto il presidente delle vittime di Pittsburgh.

LA CAMPAGNA per queste elezioni che il 6 novembre rinnoveranno un terzo del senato e la camera dei deputati galleggia dunque su una marea di fiele e bile. In un pericoloso gioco al massacro, il teatro post politico ed emozionale di Trump inghiotte ogni tema reale – ambiente, disuguaglianza, welfare – in un vortice di rabbia e identitarismo in cui la «carovana dei migranti» è trasformata in narrazione apocalittica che vorrebbe imminente l’attacco di un orda di poveri dalla pelle bruna alle mura meridionali. Fra di li loro si annidano «certamente individui medio orientali» hanno aggiunto Trump e Pence, preoccupati forse che le famiglie di profughi hondureñi non risultassero abbastanza minacciose. D’altra parte la narrazione della invasione è trigger brevettato e di sicuro effetto – a Tijuana come a Lampedusa – e i telegiornali riportano quotidianamente la posizione della marcia dei poveri su mappe simili a quelle del meteo.

NÉ HA SORPRESO NESSUNO l’annuncio dell’invio sulla frontiera di reparti dell’esercito (come se si attendessero arieti di sfondamento invece di moduli di richiesta di asilo).

Su questo sfondo gli ultimi sondaggi assegnano una buona probabilità alla riconquista della camera da parte dei democratici che devono strappare 24 seggi ai repubblicani. Assai improbabile sarebbe invece una rimonta al senato. In generale i democratici dovranno riuscire a mobilitare le componenti di quella che fu la Obama coalition: minoranze giovani e donne mentre i repubblicani si affidano al panico seminato dal presidente. E dietro a tutti i calcoli, i numeri più ineluttabili inchiodano il trumpismo alla sua natura essenzialmente maschile e suprematista: gli uomini bianchi rimangono l’unico inamovibile zoccolo duro del sostegno a Trump.

La distribuzione non uniforme della popolazione abbinata ad un sistema maggioritario uninominale opportunamente «pilotato», rende infine quello americano un sistema di democrazia alquanto indiretta.

E PER GLI STESSI MECCANISMI «distrettuali» che hanno permesso a Trump di diventare presidente con 3 milioni di voti in meno, si calcola che per riprendersi il congresso ai democratici servirà una vittoria con uno scarto di almeno il 10% di voti complessivi. Se accadrà potrà essere una indicazione sulla possibile via d’uscita dal tunnel nazional populista nel momento in cui un’altra grande democrazia americana, il Brasile, sembra averlo imboccato.