Che George Clooney per il suo nuovo film abbia scelto il confronto con la fantascienza non è poi così sorprendente; pensando alla sua filmografia come regista – da Good Night, and Good Luck (2005) a Suburbicon (2017), e prima ancora alle sue posizioni politiche sempre rivendicate apertamente – fino alle dure critiche di ieri contro Trump – il «genere» apriva una possibilità inesplorata per la sua ricerca di confronto con la realtà. Non si tratta di una «fantascienza» con alieni o guerre tra pianeti, la catastrofe che sovrasta il cielo di Midnight Sky – prodotto da Netflix e ovviamente per lo più destinato alla piattaforma – riguarda piuttosto l’uomo, ne interroga l’agire, le scelte, l’arroganza – con lo sguardo al presente di pandemia che viviamo e oltre a esso con la rivendicazione di un impegno forte e non più rinviabile sulle questioni del clima, dell’inquinamento, della devastazione messa in atto da noi stessi contro il nostro pianeta.

È DUNQUE a partire da qui che Clooney costruisce il suo viaggio, che un po’ come quello di Gravity – il film di Cuaron a cui sembra dichiaratamente volersi legare – è in realtà un muoversi senza movimento, una sorta di incursione nello spazio come tempo di un futuro che ormai non esiste più, almeno non come si era sognato nell’ottimismo del progresso o come lo avevano narrato alle generazioni dei boomer a cui anche Clooney appartiene. E che invece prende forma nell’implosione delle vite, dell’umano, della sua relazione sempre più impossibile col mondo.

Non è una «scommessa» facile anche se (o forse proprio per questa ragione) sintonizzata con quelle declinazioni della fantascienza nell’immaginario di oggi – pensiamo a film come Ad Astra o High Life ma anche a Blade Runner 2049 di Villeneuve in cui la forma stessa del futuro resa icona nell’«originario» si dissolve nella malinconia della sua perdita. Per affrontarla Clooney sceglie una storie «lineare», che si sdoppia tra due situazioni in apparenza parallele – ma che sappiamo da subito finiranno per specchiarsi intimamente l’una nell’altra – ponendosi anche davanti alla macchina da presa e accettando le sfide del momento in cui il film va in lavorazione – per esempio il personaggio di una delle protagoniste, l’astronauta incinta nello spazio, interpretata da Felicity Jones, è determinato dalla gravidanza dell’attrice scoperta sul set.
Lui, Clooney, con barbone un po’ hipster e un po’ Babbo Natale è Augustine Lofthouse, scienziato rimasto solo in una base all’Artico dopo che tutti gli altri sono stati evacuati nella speranza di trovare una salvezza all’aria avvelenata che sta contaminando la Terra e che presto arriverà anche da loro. Augustine è malato terminale, in fondo come sembra dirsi non ha nulla da perdere, e questa convinzione sorregge la sua fermezza. Vuole resistere, vuole salvare l’umanità cercando di contattare la missione spaziale di ritorno dopo anni e all’oscuro della situazione.

ERANO andati su Giove per verificare se, come lo stesso Augustine sosteneva, fosse abitabile per gli umani, lui vuole rimandarli indietro, vuole salvarli sperando che il mondo nuovo potrà essere migliore. in questa sua ossessione solitaria entra all’improvviso una bambina, è rimasta indietro nell’evacuazione, lo accompagnerà nelle lunghe giornate.
Il patrimonio fantascientifico (e filosofico) punteggia questa odissea di meditazione spaziale – i film citati e molto altro – comprese reminiscenze letterarie, un po’ di Jack London almeno nella lotta quotidiana del personaggio col geloferoce forse quasi come quella con la devastazione dell’inquinamento; ma le moltissime citazioni di un’esperienza non sono di per sé un passo falso, , il problema è che Clooney, assai più impacciato in entrambi i ruoli che in altre prove, sembra rimanervi intrappolato, e la sceneggiatura schematica di Mark Smith (The Revenant i cui ghiacci sono fin troppo presenti) finisce per paralizzarlo.
E così si perde tra tempeste spaziali e prove di resistenza perdendo soprattutto il film, il suo senso, lo charme ironico e acuto sui paradossi del mondo che riescono sempre a illumoinare, e con raffinatezza obliqua, le sue regie. Il cinema è molto lontano.