Ulrich Middeldorf negli anni dell’Università di Chicago (1935-’53)

 

«Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo profumo».
Con questa celebre citazione da Shakespeare, Ulrich Middeldorf (1901-’83) apriva un suo articolo del 1977 in cui venivano presentati alcuni approfondimenti biografici di artisti rinascimentali per il glossario Thieme-Becker. Un esordio simile non stupisce di certo in un contributo dello studioso tedesco, che varie riproduzioni fotografiche ritraggono come un avidissimo lettore. Ad ogni modo, le parole pronunciate da Giulietta a Romeo durante l’incontro avvenuto in segreto nel cortile di casa Capuleti, fornivano a Middeldorf l’occasione per alcune personali riflessioni sul valore dell’attribuzione, il metodo che, partendo dall’analisi delle componenti formali, restituisce a un oggetto la sua paternità, e quindi il nome dell’autore.
È indubbio che ogni cosa esista, e sia ciò che è, indipendentemente dal nome che le è stato associato, come affermava Middeldorf riallacciandosi alla citazione shakespeariana, ma, in merito alle opere d’arte, tale forma di categorizzazione si rivela uno strumento utile a inquadrare un oggetto in un preciso contesto geografico e cronologico. Un nome, in questo caso di un artista, non è mai una sigla sterile, ma un concentrato di relazioni che immediatamente illumina sulla realtà che contribuì alla creazione del manufatto. La premessa all’articolo, qui parafrasata, rappresentava la summa di un pensiero maturato nel corso dell’intera esistenza, spesa nell’applicazione instancabile e rigorosa della connoisseurship. L’eccezionale sensibilità ai dati visivi di Middeldorf emerge con evidenza muovendosi attraverso il suo generoso lascito scientifico, cui è possibile approcciarsi anche grazie ai tre volumi editi tra il 1979 e il 1981, per iniziativa di Paola Barocchi, che riuniscono tutti gli scritti prodotti dallo studioso fino a quel momento.
Rappresenta ancora un caposaldo nella letteratura specialistica il saggio pubblicato nel 1938 sul «Burlington Magazine», dedicato al piedistallo bronzeo del cosiddetto Idolino di Pesaro, complesso oggi conservato al Museo Archeologico di Firenze. In quella sede lo studioso riconduceva la base, realizzata a sostegno della statua efebica, ugualmente in bronzo, di epoca romana, alla bottega dei tre figli di Antonio Lombardo, gli scultori Aurelio (1501-’63), Girolamo (1506/’07-1584/’89) e Ludovico (1509/’10-1575). L’esemplarità di questo contributo è duplice: innanzitutto, testimonia l’attenzione riservata da Middeldorf al patrimonio artistico fiorentino, che ebbe modo di conoscere a fondo durante gli anni trascorsi nella città toscana; in secondo luogo, fornisce una prova delle molteplici diramazioni dei suoi interessi, dimostrando la familiarità dello studioso anche con l’opera dei tre maestri cinquecenteschi, originari dell’area ferrarese-veneta, che fissarono la loro dimora e il centro della loro attività nelle Marche, tra Loreto e Recanati.
L’articolo, è il caso di ricordare, vide la luce durante l’assenza di Middeldorf dall’Italia, quando i risvolti della politica europea lo obbligarono alla fuga in America. Lo studioso, nativo della Sassonia, si trasferì a Firenze nel 1924, dove ricoprì per undici anni l’incarico di curatore della Fototeca dell’Istituto Germanico. Nel 1935, infatti, a causa della sua aperta opposizione al regime nazi-fascista, fu costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove ottenne la cattedra all’Università di Chicago e il titolo di curatore della sezione di scultura dell’Art Institute. Qui risiedette fino al 1953, allorché ritornò a Firenze in veste di direttore dell’Istituto Germanico, carica che mantenne fino al 1968. Sempre a Firenze, nel 1983, quindici anni dopo la fine del suo incarico al Germanico, Middeldorf morì. Trascorse, nel complesso, più di quattro decenni nella città gigliata, e durante questo lungo periodo, sin dagli inizi del soggiorno, sviluppò un interesse precipuo per la scultura rinascimentale toscana.
Il sontuoso piedistallo dell’Idolino, popolato da formazioni vegetali, teste caprine e creature ibride, dovette colpire da subito lo studioso, che nel suo articolo esordiva così: «The Idolino, one of the most famous of classical bronzes, stands on perhaps the most beautiful base ever designed for such a purpose». Fino ad allora l’oggetto aveva avuto un’attribuzione che lo calava pienamente nel tessuto culturale della città che lo ospitava. Nel 1839 Giovanni Gaye lo aveva infatti riferito a Vittore Ghiberti, figlio del più illustre Lorenzo, tra i massimi rappresentanti della plastica quattrocentesca. I tralci di vite che decorano la base, probabilmente, apparivano a Gaye animati dallo stesso senso di verità percepibile nelle composizioni vegetali delle cornici intorno ai battenti di Andrea Pisano per il Battistero fiorentino, create appunto dal Ghiberti junior. Il nome di Vittore era comunque del tutto implausibile, e non solo perché l’artista non ebbe alcuna connessione con la città di Pesaro, da cui la base proveniva. Lo studioso tedesco poteva infatti constatare che le fonti riguardanti la scoperta della statua contrastavano con le cronologie tanto alte suggerite dal riferimento a Vittore, e remavano contro una datazione tardoquattrocentesca anche i dati dello stile espressi dal plinto.
D’altra parte, la provenienza adriatica era andata dimenticata nel corso del tempo. Una serie di lettere, riscoperte a partire dalla fine dell’Ottocento, e riesaminate già da Georg Gronau nel 1936, attestavano però che la statua fu trovata a Pesaro al tempo del duca Francesco Maria I della Rovere, e che il piedistallo fu una commissione del figlio e successore Guidobaldo II. Il simulacro bronzeo di età romana, alto circa 150 centimetri, fu infatti rinvenuto nella città marchigiana nel 1530 durante alcuni lavori di fondazione per la dimora di tale Alessandro Barignano. Il ritrovamento fu accolto con comprensibile fervore dall’allora signore del ducato roveresco, Francesco Maria I, che entrò in possesso della statua e decise di destinarla al cortile centrale della Villa Imperiale pesarese. Il pezzo riemerso dal sottosuolo rappresentava una testimonianza delle origini antiche della città in cui i Della Rovere si erano ritrovati a governare, e la sua conservazione apparve come una priorità per il casato. Nel 1533, in seguito alle richieste del duca, l’umanista e porporato veneziano Pietro Bembo compose addirittura un’epigrafe in omaggio all’Idolino, che fu successivamente impiegata, seppure in una versione leggermente variata, per l’iscrizione leggibile nella base bronzea.
Ad ogni modo, la statua rimase a Pesaro fino al 1630, allorché il duca Francesco Maria II la propose in dono al granduca di Toscana, Ferdinando II de’ Medici, sposo della nipote Vittoria. In una lettera di quell’anno, egli avvisava inoltre che sarebbe stato inviato, insieme con la statua, il piedistallo, il quale, «se bene fosse cosa moderna», era stato fatto eseguire «dal signor duca suo padre», ovvero Guidobaldo II, e «dagl’intendenti era stato giudicato anch’esso degno di stima».
La provenienza originaria fu lo stimolo per ricondurre la base ai tre maggiori scultori che lavorarono in terra marchigiana nel XVI secolo, noti soprattutto per la loro attività nel campo della bronzistica. La loro importanza per gli sviluppi dell’arte del getto nelle Marche è tale che già Giovanni Pauri, autore di una pionieristica monografia dei tre fratelli, del 1915, li definiva «fondatori della scuola recanatese», ovvero di quella generazione di maestri fonditori che dominarono la scena locale tra la fine del Cinquecento e il secolo successivo. Proprio il confronto con il capolavoro dei Lombardo in questo settore, ovvero il Tabernacolo eucaristico presso l’altare maggiore del Duomo di Milano, permetteva di risolvere la questione attributiva. La custodia delle sacre specie conservata nel capoluogo lombardo, in realtà, era stata voluta nel 1559 da Paolo IV Carafa per la propria cappella nel Palazzo Vaticano, e la sua esecuzione coinvolse, oltre ai tre scultori, Pirro Ligorio in qualità di autore del progetto. In seguito alla morte del pontefice, avvenuta nello stesso anno, la commissione fu rilevata dal successore al soglio, Pio IV de’ Medici, che alla fine, nel 1560, fece dono dell’oggetto alla natìa Milano, la cui diocesi era al tempo sotto le cure del nipote, l’arcivescovo Carlo Borromeo.
Middeldorf rilevò che il motivo vegetale che nella base dell’Idolino alludeva al mondo bacchico era del tutto sovrapponibile a quello che invade la parte inferiore del tabernacolo, dove la vite simboleggia invece il Mistero dell’Eucarestia. Non meno risolutivi erano inoltre i raffronti con i pannelli narrativi dei due oggetti. Proprio i rilievi, tra l’altro, permettono di leggere i caratteri più peculiari dei tre maestri, legati ancora ai modelli del primo Cinquecento veneto, ma informati pure sugli esiti più moderni della ‘maniera’ che in Laguna aveva avuto il suo riformatore in Jacopo Sansovino. I tre fratelli, d’altra parte, iniziarono il loro apprendistato sotto la guida del padre Antonio, finché almeno questi fu in vita, essendo precocemente scomparso nel 1516, quando il figlio maggiore, Aurelio, era appena quindicenne. Si apprende invece dalle Vite di Giorgio Vasari (1568) che il secondogenito, Girolamo, entrò successivamente nella bottega veneziana di Sansovino, ma contatti con quella civiltà figurativa non possono essere esclusi nemmeno per gli altri due fratelli.
Un pezzo tanto straordinario come la base dell’Idolino portava Middeldorf a immaginare che, in pieno Cinquecento, Recanati, dove i Lombardo stabilirono la propria bottega intorno alla metà del secolo, fosse diventata un centro della scultura in bronzo non inferiore a quella che era considerata la città per eccellenza in questo ambito, ovvero Venezia. La produzione di quelli che furono i creati della scuola dei tre scultori colpisce effettivamente per originalità e qualità tecnica: basti pensare al Fonte battesimale nella chiesa di San Giovanni Battista a Osimo, opera di Tarquinio e Pier Paolo Jacometti che ha l’aspetto di un tempietto circolare e cupolato sorretto da bovini inghirlandati, un’invenzione dal sapore quasi profano.
L’attribuzione del piedistallo dell’Idolino ai Lombardo permette di comprendere più chiaramente gli slanci di fantasia riscontrabili nell’opera dei loro seguaci, nonché di saggiare l’alto grado di raffinatezza cui giunse la cultura di questa regione della Penisola bagnata dall’Adriatico. Ancora oggi la proposta di Middeldorf, mai messa in discussione (sebbene non sia finora emersa alcuna traccia documentaria) vista l’evidenza delle argomentazioni stilistiche, rappresenta di fatto una delle più importanti acquisizioni sulla scultura marchigiana, e, più in generale, un esempio di metodo, tra filologia e analisi visiva.