«Se n’è andato via dieci anni troppo tardi«. Non sono stati teneri i commenti di molte testate americane sull’uscita di scena di Steve Ballmer, l’amministratore delegato di Microsoft che qualche giorno fa ha annunciato di essere pronto a lasciare il timone dell’azienda entro un anno. Tempo insomma di sistemare la guerra di successione e insediare un nuovo regnante che sia in grado di dare una bella spinta al colosso in panne. Di Ballmer in questi giorni si sono ricordate le solide capacità manageriali e la scarsa portata visionaria. I prodotti che hanno tenuto, e quelli che hanno fatto flop.
Ma la sua qualità principale è rappresentata da un aneddoto, uno dei tanti che circondano con un’aura stupefatta la sua lunga carriera in Microsoft: 33 anni, di cui 13 alla guida. Ebbene, la storia – raccontata da un ex-dipendente e contestata dallo stesso Ballmer – ha a che fare con la reazione a dir poco stizzita che ebbe l’ad nel 2005, all’annuncio che Mark Lucovsky, uno sviluppatore di talento, avrebbe lasciato casa Redmond per andare da Google, gli odiati rivali. Pare che Ballmer abbia risposto lanciando una sedia attraverso la stanza, ed esternando il proprio disappunto al grido di: «Quel fottuto Eric Schmidt (l’ad di Google, ndr) è un coniglio. Ma io lo sotterro. L’ho fatto prima e lo rifarò. Io Google l’ammazzo!».
La vicenda potrebbe certamente rientrare nella lunga serie di camei folcloristici collezionati da Ballmer nel corso della sua carriera. Memorabile ad esempio l’urlo cantato e ripetuto di «Sviluppatori!» sul palco di una conferenza. O gli sketch che sprizzano energia e fisicità fedelmente conservati sulla piattaforma della concorrenza, YouTube. Tuttavia il lancio della sedia e la promessa di distruzione dell’avversario denotano una qualità che Ballmer aveva e che altri, specie nelle nuove stelle del firmamento tech, non hanno: la brutale sincerità del turbocapitalista. Che punta a dominare il mercato, a cavalcare la propria posizione dominante per estendersi in altri settori e a schiacciare tutto ciò che possa costituire anche una lontana minaccia. Non è un caso che ancora nel marzo di quest’anno l’Unione europea abbia ancora una volta sanzionato Microsoft, con una multa da 561 milioni di euro, per non aver rispettato gli impegni assunti nel 2009, secondo i quali avrebbe dovuto offrire agli utenti la possibilità di scegliere il software per la navigazione internet.
Era solo l’ultimo strascico della guerra dei browser, iniziata con l’annientamento di Netscape, consumatosi tra il 1997 e il 2000, e proseguita con le indagini di abuso di posizione dominante. Legando Internet Explorer, il suo programma di navigazione, a Windows, il suo popolarissimo sistema operativo, e rendendo scomodo per gli utenti cambiare l’impostazione iniziale, Microsoft fece diventare leader di mercato anche il suo browser. Oggi Netscape è risorto nell’agguerrito Firefox della fondazione Mozilla, e il vento è mutato di parecchio. A partire proprio dal ruolo del software a codice aperto, che ha conosciuto negli ultimi anni un successo quasi inaspettato. E di nuovo, quello era un tema che Ballmer non aveva tanto capito.
Nella bacheca delle sue memorabilia, va custodita anche questa esternazione su Linux, il sistema operativo open source: «È un cancro che si attacca a tutto quello che tocca a livello di proprietà intellettuale. Così funziona la sua licenza». Era il 2001, e l’open source è sì proliferato come un tumore, ma con esiti benigni per l’industria tech e la società. Il tempo speso a combatterlo, a livello commerciale e legale, è stato davvero tempo perso. E anche se c’è stata una svolta, con una serie di notevoli aperture verso il mondo «aperto», come l’offerta di piattaforme open sopra Windows Azure, il suo servizio web per costruire e distribuire applicazioni, per molti osservatori la presa di coscienza è arrivata troppo tardi.
In ogni caso, il panorama era mutato su molti fronti. Da padrona dell’home computing Microsoft si è trovata nel giro di pochi anni ad assistere a due migrazioni: il software che lasciava i pc per andare nel cloud, sui server delle aziende, grazie alla nuova potenza di banda e di processori; e i pc che, con lo zampino e la visione di Steve Jobs, si reinventavano tablet e smartphone. In pratica si è trovata di fronte a due fenomeni che scavavano la terra dalle sue fondamenta.
«Ci sarebbe voluto un pensatore eccezionale, un visionario fuori dagli schemi per ammettere che le basi dell’azienda si stavano incrinando – ha commentato David Pogue del New York Times – e Ballmer non era quel tipo d’uomo». Era, è, piuttosto un lottatore che resiste. E un manager dal polso d’acciaio che non vestiva i panni del filantropo. Non andava in giro con il look da studente e la faccia d’angelo di Zuckerberg, Page o Brin. Non proclamava di non voler fare del male, come Google, o che la connessione alla rete sia un diritto umano, come Facebook, che ovviamente quando parla di rete pensa al suo social network.
Alla fine, la parabola di Microsoft negli ultimi 13 anni è lo specchio delle trasformazioni di internet e della sua economia. Oggi Google domina del tutto la ricerca e la pubblicità su web; Apple ha creato splendidi device e un ecosistema di app del tutto chiusi; facebook si nutre di tutti i nostri dati e ne assume di fatto il controllo; Amazon sta spazzando via la concorrenza nel settore dei libri e dell’ecommerce. Per anni Microsoft è stata l’incarnazione dei sistemi proprietari, del «padrone delle ferriere» del software, ma oggi ci ritroviamo con nuovi monopolisti dal volto umano. Che ci lusingano con prodotti belli e facili da usare, come accadeva negli anni ’90 con Microsoft. E che si sono ritrovati, insieme a Redmond, a collaborare coi programmi di sorveglianza globale del Datagate. Dunque, Ballmer lascerà pure un’azienda che deve necessariamente ripensarsi; ma forse è tempo per tutti di fare due ragionamenti.