La prima volta che ho avuto in mano un Vtr è stato nel ’74, in ritardo rispetto ad altre esperienze italiane, molto in ritardo rispetto agli artisti statunitensi.
All’inizio degli anni ’70 ero tutto preso dal cinema sperimentale e dalla musica elettronica e per me la pellicola rappresentava l’unico mezzo per attivare il dialogo tra immagini e suoni.

Frequentavo l’Università Internazionale dell’Arte (fin dalla sua nascita nel 1969) e, dopo qualche anno di intensa esperienza formativa, il direttore e fondatore dell’U.I.A. Giuseppe Mazzariol mi promuove assistente e con questo ruolo mi manda a Milano: «Ho sentito parlare di un nuovo apparecchio che oltre a registrare i suoni registra anche le immagini, vai e torna con l’attrezzo».
Sua intenzione era documentare anche con le immagini le conferenze e le attività di laboratorio dei visiting professor (Buckminster Fuller, Louis Kahn, Isamu Noguchi, Mark Di Suvero…) invitati a Palazzo Fortuny a parlare del loro lavoro in relazione alla città di Venezia.

Vado, e torno con un Vtr Akai ¼ di pollice.
Con il nuovo attrezzo imballato, salgo all’ultimo piano di Palazzo Fortuny dove ho la fortuna di avere uno studio. Sono impaziente di aprire l’imballo per capire come funziona un Video Tape Recorder.

Nelle parole del prof. Mazzariol c’è l’essenza del suo funzionamento: «Un apparecchio che, oltre a registrare i suoni, registra anche le immagini». Il Vtr è l’evoluzione tecnologica di un registratore audio che ha una specie di secondo microfono con un’ottica attraverso la quale si inquadrano le immagini che vengono registrate.

Nel mio studio sono solo con la videocamera in mano, legata da un grosso cavo, cordone ombelicale, al registratore a bobine poggiato sul tavolo. La luce naturale entra dalla trifora nella stanza.
Pigio Rec e, attraverso il mirino, inquadro quel che vedo attorno a me. Stop. Riavvolgo il nastro.

Play e… miracolo! Nel monitor vedo immediatamente quello che ho appena ripreso.
In un istante mi rendo conto che le estenuanti attese tra l’atto di riprendere e l’atto di vedere quel che si è ripreso non esistono più.
Con la pellicola funzionava così: dopo aver girato si spediva la bobina al laboratorio di sviluppo a Milano e si aspettava il risultato che arrivava anche 15 giorni dopo, per posta solo allora potevi vedere il «girato».

Questo lasso di tempo era difficile da digerire perché dovevi abbandonare il lavoro appena fatto affidandolo a qualcun altro senza poterlo controllare. Una volta è capitato che alcune bobine tornassero incomprensibilmente nere. Errore mio o del laboratorio?

Con il Vtr ora è tutto sotto controllo, se si sbaglia qualcosa si rifà immediatamente cancellando e sovrascrivendo sullo stesso nastro.
È vero, le immagini non sono un gran che, un bianco e nero sbiadito che nulla ha a che fare con la definizione, la luce, il colore della pellicola. Ma l’immediatezza è impagabile. Il video è totalmente diverso dal cinema e, fondamentale per un giovane senza soldi, il nastro costa pochissimo e dura moltissimo.

L’immediatezza del nuovo strumento mi suggerisce un uso disinvolto, ma appropriato. Non è un prolungamento dell’esperienza con il cinema, è un altro l’approccio che devo mettere in gioco.
Alla povertà dell’immagine è necessario supplire con idee che usino il mezzo per le sue caratteristiche: un registratore di immagini e suoni con una sua qualità tutta particolare. Una specie di matita per fare schizzi rispetto ad una tavolozza ricca di colori. Un quaderno di appunti rispetto alla finitezza di una tela.

E lì, nello studio veneziano, nasce subito la prima idea da verificare.
Posso creare con le cose che ho sottomano una partitura di immagini/segni che in un secondo tempo interpreterò musicalmente.
Quella delle immagini in movimento come partitura è una pratica che porto avanti già da qualche anno.

Con il cinema, quando il montaggio è finito, suono direttamente guardando le immagini. A volte registro, e questo diventa la colonna sonora del film, ma capita anche che suoni dal vivo in presenza degli spettatori come si faceva con il cinema muto.
Con il Vtr visto che è impossibile montare, otterrò il ritmo con movimenti di macchina, gesti poco ortodossi su videocamera e zoom o a camera fissa. Saranno gli oggetti ad essere mossi.

Nella seconda fase della realizzazione di Spartito per violoncello sarà Paolo Cardazzo a stare dietro la camera facendone un uso «normale» e oggettivo. Registrerà la performance.
Nel ’72 avevo presentato due miei film alla Galleria del Cavallino (Laguna, 1971; Blud’acqua, 1972) e in quell’occasione avevo conosciuto Cardazzo. Qualche mese dopo questa mia prima avventura con il video, Paolo era intervenuto ad un incontro all’U.I.A. e così avevo avuto modo di fargli vedere il mio video/spartito e di parlargli della seconda fase: l’esecuzione al cello.

«Nessun problema, venga da me in Galleria e registriamo la performance», mi dice (faccio notare il «venga»). Paolo in tanti anni di intense relazioni a tutti noi, artisti del Cavallino, ha sempre dato del Lei. Un suo tratto di signorilità? Un grande rispetto per gli artisti?

Fatto sta che mi chiamava Maestro, ma lui era il direttore di una storica galleria d’arte e aveva 38 anni, mentre io di anni ne avevo avevo 23…
Cavalletto, videocamera e Vtr. Quello di Paolo è il famoso Portapak Sony ½ pollice.

Il monitor che sostituirà il tradizionale leggio viene appoggiato su una panca, a fianco il registratore Akai, con il nastro della partitura a portata di mano dell’esecutore.
Sedia, cello. Nessuna luce. Possiamo andare. Parte la registrazione dell’esecuzione.

I vari brani non sono consequenziali sul nastro per cui ad ogni fine pezzo devo fare stop e andare al punto di inizio successivo. Con il video niente montaggio e quindi ho annotato il numero del contagiri su carta da musica, quasi a ricordare che un tempo la musica si scriveva sul pentagramma, ora invece…
Tutto procede, io al violoncello, Paolo alla videocamera.

Squilla il telefono nell’ufficio della galleria. Io sono di spalle ma intuisco che Paolo è andato a rispondere abbandonando me e la camera. E io ora che faccio? Continuo? Continuo. Fine esecuzione e fine registrazione, ci possiamo parlare. «Bene», dice lui, «buona la prima» e la mia timidezza mi impedisce di chiedere che cosa sia successo… Quel suono del telefono sarà rimasto registrato… Da questo episodio capisco che sì, è vero che con il video si può cancellare e rifare tanto non costa nulla, ma è anche vero che la cosa più importante è aver registrato l’idea e se non è perfetta non importa, tanto il video è come un quaderno di appunti, basta annotare.

A testimonianza della disinvoltura nell’uso del nuovo mezzo, soprattutto nei primi approcci, chi ascolterà con attenzione Spartito per violoncello (1974) potrà sentire al minuto lo squillo di un telefono.

*[Estratto dal catalogo della mostra Michele Sambin – Archè/Téchne, Silvana Editoriale]