«Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso. Io l’ho trovato scritto: da me, ovviamente, ma senza che l’avessi voluto» dice Lalla Romano rivolgendosi a chi si appresta a leggere Le lune di Hvar. E aggiunge: «non era nemmeno propriamente ‘scritto’; erano annotate soltanto frasi, parole». Frasi, parole fissate in una loro compiutezza senza svolgimento narrativo ulteriore che creano, però, nell’accostarsi in successione, una scansione, un ritmo che fa pensare ai grani d’una collana, ai fiori di una ghirlanda. «Una sorta di ‘memoria immediata’ guidò, quasi forzò la mia mano», confessa Romano: «su quegli appunti avvenne una coincidenza: di me con la mia scrittura». Tanto che non si sfugge alla suggestione che il fissare una frase sia operazione non dissimile concettualmente (diciamo ‘narrativamente’?), per Romano, dallo scattare una fotografia: «è un libro privo di testo», sottolinea.

Una dichiarazione questa che va ragionata, se pur non sorprende il lettore di altre opere di Romano (ma penso, innanzi tutto, a Nuovo romanzo di figure che Einaudi pubblica nel 1997 a compimento del percorso, iniziato dalla scrittrice nel 1975 con Lettura di un’immagine), nelle quali il testo viene stemperato all’estremo come forma scritta per esser ‘sottoposto’ ad una immagine che lo egemonizza, fino al punto che la scrittura affiora di nuovo solo perché è ri-formulata e arricchita di senso dalla intimità contratta, appunto, con l’immagine. Nel caso di Le lune di Hvar agevolmente si può rilevare che ogni breve frase, annotata e trascritta in sequenza, per un verso partecipa dello statuto del fotogramma.

E ciascuna di quelle frasi, o succinta nota o mero appunto, racchiude un rinvio ad altro, istituisce una somiglianza, rimanda ad un accaduto o ad alcunché di pregresso. Tiene, insomma, della virtù allusiva propria dell’immagine. Romano ne Le lune di Hvar dà caratura e funzione di immagine alla composizione di parole in frase. Alcuni esempi: «la ragazza molto bella che io chiamo Nella Marchesini (amica di Lalla negli anni Venti, a Torino, alla scuola di Felice Casorati)»; «passa il conte (Ezra Pound) con la sua testa bianca»; «Abbagnano è ora su questi scogli, non è più rosa pallido; legge il giornale»; «Ancora tramonto rosso, ‘fiaba nordica’- si può vivere in Claudio Lorenese?». Dunque la questione dei nessi che si istituiscono tra parola e immagine muove quella ricerca sul testo in forma di scrittura che Romano ha condotto, saggiandone la tenuta in rapporto ad un testo in forma di figura, nell’intento di giungere ad una forma nuova di romanzo.

Michele Rago, leggendo Le lune di Hvar, scrive in una delle sue pagine di diario: «Il libro presenta di continuo le figure delle persone incontrate, e quasi sempre esse vengono associate ad altre persone somiglianti (Ezra Pound, Paolo Stoppa, Greta Garbo, ecc.), oppure persone e paesaggi entrano in atmosfere e somiglianze pittoriche (copiose perché l’autrice fa sentire la sua preparazione squisitamente assimilata). Si può pensare cosa dev’essere in un pittore il gioco intimo delle affinità dei colori (Matisse) o delle forme (i cubisti)». Poi Rago riflette sul suo modo di ‘vedere’ e dice: «per me vedere un oggetto desiderabile non è una sensazione puramente visiva. Mi chiedo: c’è qualcuno per il quale tutto si limita al visivo? Non c’è sempre un ‘indotto’ in ogni sensazione?

Ossia, una parte immaginata? O una sovrapposizione?». Rago sembra quindi aprire il movimento introflesso che Romano imprime alla congiunzione di immagine e parola quando dice: «Io per me soffro piuttosto di immaginazione consequenziale: vedo ogni istante quello che potrebbe avvenire se… Se dicessi questa parola a qualcuno che mi infastidisce con la sua vana loquela… Se di fronte a una provocazione mi lasciassi andare a… Oppure vista una bella persona, immagino cosa accadrebbe se… e mi sento percorrere da un fremito di carezza frenata. In questo oceano di immagini incompiute sento che una realtà sussidiaria di atti incompiuti integra quella molto più povera della realtà sensibile».