«Hai dei begli occhi lo sai» le sussurrava Jean Gabin in Il porto delle nebbie (Le Quai des brumes) prima che lei gli dicesse con timidezza spavalda: «Baciami». E quegli occhi, «i più belli del cinema», come si legge nel comunicato con cui la famiglia ne ha annunciato la morte, trasformarono la ragazzina appena diciottenne in una leggenda. Michèle Morgan è scomparsa ieri a 96 anni, quasi un secolo, poco meno degli anni del cinema che ha attraversato con lo sguardo di un momento irripetibile. Era nata a Neuilly-sur-Seine nel 1920 come Simone Roussel, in mente aveva sin da piccola una sola idea, quasi un’ossessione: diventare una stella del cinema. «Volevo essere Garbo» racconterà. Così a 14 anni abbandona la provincia per Parigi, inizia a frequentare i corsi di recitazione con René Simon, qualche comparsata non accreditata ma soprattutto l’ostinazione necessaria a costruire la carriera che desidera.

 
Il primo passo è un nuovo nome: Simone diventa Michèle mentre il cognome, Morgan, dal vago timbro anglofono sembra già ammiccare a un possibile futuro hollywoodiano. Michèle non è solo bella, ha la seduzione del desiderio che farà innamorare più di una generazione. «Vi sembra possibile che potessi chiamarmi Simone ?» dirà tempo dopo in una intervista.
Siamo negli anni Trenta, Michèle ha diciassette anni quando Marc Allegret la sceglie come protagonista di Gribouille (Il caso del giurato Morestan,1937) da una pièce di Marcel Achard, che la vede a fianco di Raimu. L’orco e la fanciulla, una coppia stravagante che gioca sul contrasto antico e letterario tra la giovane diafana piegata da un destino avverso e il burbero ma buono che cerca di proteggerla. Accusata dell’omicidio del suo protettore, l’uomo che è tra i giurati al processo riuscirà a convincere gli altri della sua innocenza.

 
Donna romantica e femme fatale, assassina e vittima di una bellezza che la rende irresistibile fino a diventare una condanna, il personaggio di Natalie Roguin trova in Michèle Morgan una corrispondenza perfetta. È giovane, è una principiante ma sa muoversi con sicurezza: magnetica, misteriosa, irrompe nel film con disinvoltura e ne cambia il movimento fino a prevalere sui partner molto più famosi.
L’anno dopo arriva Marcel Carné con Le Quai des brumes. Michèle Morgan è Nelly, la sua figurina esile, avvolta nell’impermeabile chiaro disegnato da Coco Chanel come il cappello nero che rende i suoi «meravigliosi» occhi ancora più luminosi attraverserà i decenni. Eterea, destinata a un amore disgraziato Nelly si specchia nella malinconia che sembra segnare, in modo quasi segreto, l’attrice. «La tristezza è una caratteristica che mi appartiene» diceva di sé Morgan.

 
Coi dialoghi di Jacques Prevert, dal romanzo di Pierre Mac Orlan, la fotografia di Eugène Schüfftan che aveva illuminato i film di Lang e di Ophuls, ed era fuggito in Francia dopo l’arrivo al potere di Hitler, il film ebbe un successo o straordinario diventando l’emblema del «realismo poetico» e di un tempo che di lì a poco sarà inghiottito dalla guerra.
Morgan e Gabin si ritroveranno di nuovo in Le récif de corail, girato lo stesso anno da Maurice Gleize, e in Remorques (Tempesta, 1941) di Jean Grémillon (uno dei registi preferiti di Jean Marie Straub). Ancora amori tragici, vite disperate in fuga dal passato o da una realtà che non permette di scegliere liberamente. Le riprese di Remorques iniziano poco prima dell’entrata in guerra della Francia, si fermano, riprendono l’anno dopo, si bloccano di nuovo con l’occupazione tedesca, e quando Gremillon finisce il film Morgan e Gabin sono già fuggiti negli Stati uniti.

 
Lei vive in California, perfeziona l’inglese, continua con determinazione a prepararsi. Lavora con Robert Stevenson (Joan of Paris, L’ora del destino, 1942);Michael Curtiz (Passage to Marseille, Il giuramento dei forzati, 1944) però non riesce a affermarsi.. Alla fine della guerra torna in Europa, nel 1946 vince il premio per la migliore attrice al festival di Cannes con La symphonie pastorale di Jean Delannoy. La carriera riprende, gira molti film tra cui Les Grandes Manœuvres (1955), di René Clair e in Italia Fabiola di Blasetti.
La Nouvelle Vague la mette in disparte. Lei rifiuta la proposta di Visconti che la voleva in Senso, e di Antonioni per La notte, riappare in in Benjamin ou les mémoires d’un puceau (Benjamin ovvero le avventure di un adolescente, 1967) di Deville, e in Le Chat et la Souris (Il gatto, il topo, la paura e l’amore, 1975), di Lelouch.