Un libro di Michele Mari è un’avventura nel regno del mondo letterario, dove scrittori diversi si intrecciano e le nevrosi private si trasformano in arabeschi immaginativi. Non fanno eccezione a questo principio, i racconti contenuti nelle Maestose rovine di Sferopoli (Einaudi, pp. 176, € 18,00). Sulla scia di Fantasmagonia del 2012, le coordinate di questo mondo, edificato all’ombra della città evocata nel titolo, sembrano essere le stesse del libro precedente: «Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto. Il male dev’essere intollerabile; dove l’intollerabilità, si badi, dev’essere destinata a non scemare per scorrer di tempo ma, al contrario, a vieppiú incrudelire: e prima, e dopo il decesso».

Paranoie e vendette
E dunque, nell’universo di Sferopoli, si accampano incubi, finzioni nere, sentimenti cupi di vendetta o di odio, fantasmagorie dottissime, paranoie che mangiano la vita, sceneggiature oniriche. In un caso, protagonista è il buio, dal cui assillo non si può fuggire. In un altro, due parroci, che si affrontano in una sfida infernale per la raccolta del fungo porcino più grande. Un altro racconto fa sì che la storia di Federigo degli Alberighi, esempio classico in Boccaccio di cortesia e di fedeltà amorosa, diventi un racconto di rimpianti, di scelte sbagliate e di eterna ripetizione di sogni mostruosi. In un altro testo ancora, un tema in classe introduce al viaggio dentro paure private e collettive.
E, ancora, il ricordo del padre nel cimitero di Lambrate è una sequela di dati eccentrici, elencati dal punto di vista di entità astratte: dal Numero al Cristallo, dalla Concessiva all’Ombra per finire con la più problematica di tutte le figure, il Figlio. In un altro racconto, un oratore illustra il senso della storia, che esiste «solo per la forma che le diamo inventandola: come l’arte». Sono le parole che propongono un’intelligenza dei fatti e ne fanno racconto.

Introducendo il suo libro di saggi, Il demone e la pasta sfoglia del 2017, Mari disegna la costellazione degli scrittori che gli sono cari. Ciascun nome incarna un’idea di letteratura estranea a ogni ipoteca di realismo e che si alimenta piuttosto di ossessioni private. Le forze sotterranee della coscienza costringono chi scrive a ritornare su temi costanti, a rimodularli ogni volta secondo nuove invenzioni e a tradurre l’universo dei propri incubi nella ricchezza inesauribile delle parole: «Céline, Gadda, Gombrowicz, Kafka, Borges, Conrad, Canetti, Manganelli, Perutz, Melville, Landolfi, Maupassant: molti dei nostri scrittori prediletti sono degli ossessi: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa».

Da questo presupposto derivano due conseguenze. La prima riguarda la continuità del mondo fantastico di un autore, spinto a interrogare con accanimento feroce le paure che lo hanno segnato. La seconda affida allo stile il ruolo essenziale di inventare e di nominare un mondo, dandogli quella esistenza assoluta che non si può confondere con nessuna mimesi della realtà. La vera letteratura, come Mari ha dichiarato recentemente dialogando a distanza con Walter Siti in Scuola di demoni (a cura di Carlo Mazza Galanti, minimum fax) «è sempre fantastica» e, «nella sua quintessenza è più letteraria quando diventa un mondo a sé, come in Mervyn Peake, come nel Mago di Oz, come in Alice, come in Lovecraft».

I libri di Mari sono in gran sostanza la messa in atto di questa idea: assunta e variata con una ricchezza ogni volta sorprendente. Da Tu, sanguinosa infanzia, a Leggenda privata, passando per Verderame, compaiono i grovigli dell’infanzia, l’intreccio complicato di cupe relazioni familiari, trasfigurate da un’immaginazione golosamente iperletteraria, che a somiglianza dell’archetipo gaddiano rimastica «la lingua violentandola, storpiandola, asservendola ai miei usi». Cioè alle necessità espressive che più occorrono per dare una forma all’informe. La cosmografia narrativa che ne deriva emancipa i generi bassi rispetto al paradigma a lungo dominante nella tradizione italiana. Nella cultura di Mari primeggiano autori e opere che interrogano i mondi sepolti della paura, nutrendosi dell’immaginazione più inventiva e vertiginosa: da Lovecraft a Stephen King. Oppure, insieme con «l’immenso Jack London», spiccano scrittori del risentimento e sublimi modelli di stile: come Gombrowicz, di cui Mari esalta «l’elemento delirante, destrutturante, il biascicamento, l’ecolalia», oppure come Céline. Lo stile e la lingua diventano «una forma alchemica che dalla debolezza psichica dell’autore ha tratto il suo stesso sfarzo».

I testi contenuti nella raccolta Le maestose rovine di Sferopoli non fanno eccezione alla natura sfrenatamente inventiva del racconto e ne costituiscono, anzi, un esempio esplicito.

Simile alla Perla di Kubin
Che cosa è la Sferopoli evocata dal titolo? Mari, nel primo racconto «Strada provinciale 921», descrive un viaggio ai confini della realtà, che, attraverso strade perdute, costeggia un ininterrotto regno di ombre. Collocata nel puro regime dell’immaginazione e del sogno, Sferopoli è simile alla città di Perla, descritta da Alfred Kubin nell’Altra parte e deposito di ogni tipo di scarti. Contiene «il Respiro del Male e i rantoli, ovunque». Dai loro suoni nessuno è al riparo. Lo scrittore è chi tende l’orecchio «alla notte silente, allo struggimento dell’esule, al rantolo dell’agonizzante, al disperato richiamo della bestiola senza nome».